B&B(asta)? Come Combattere Un Turismo Poco Sostenibile

La nostra rappresentazione del mondo influenza la scala di valori che percepiamo e, guardando all’economia, le cose non sono poi così diverse. Pensando all’industria pesante siamo soliti avere un giudizio negativo, propendendo verso modelli economici snelli, più sostenibili e di facile attuazione, uno su tutti il turismo. Ma è davvero oro tutto quel che luccica? Può davvero “prenotarsi” una soluzione? Cerchiamo di addentrarci meglio dentro la panacea di tutti i modelli di sviluppo economico.

Il turismo è una risorsa fondamentale per il nostro Paese e i numeri ne suggeriscono il peso. Da una ricerca Istat riferita all’anno 2019, in Italia si contavano circa 220mila esercizi ricettivi, per un ammontare di posti letto superiore ai 5 milioni. Nel 2020, a causa della pandemia, il comparto turistico ha fatto registrare un calo di turisti stranieri pari al 54,6% rispetto al periodo precedente, con una perdita vicina ai 35 miliardi di euro. Andando oltre il fattore meramente quantificabile, il turismo rappresenta o può rappresentare un volano per l’economia anche in zone che non presentano un bagaglio storico ed architettonico consistente, ma sono ricche di amenità, fra esse le campagne, le aree interne e le zone montuose.

Analizzati questi aspetti, la soluzione turistica sembra confermare la sua bontà e la sua insita democrazia, soprattutto guardando alle trasversalità delle ricchezze naturali, paesaggistiche e storiche del nostro Paese. Le piattaforme e le soluzioni di hosting proliferano, rendendo tutto estremamente agevole e a portata di app; crescono strutture ricettive e noi siamo sempre più propensi ed aperti a questa crescita basata su un’accoglienza rigogliosa, che sembra non avere criticità apparenti e strutturali. Possiamo darci una pacca sulla spalla e farci i complimenti, la nostra soluzione ha funzionato, eppure…

“Storico” è l’aggettivo utilizzato da Reinier van Dantzig per definire il nuovo regolamento “Turismo in equilibrio”, adottato dal consiglio comunale della città di Amsterdam. Nello specifico, esso fissa il numero di pernottamenti turistici nella capitale europea, ad un massimo di venti milioni annui. In caso di eccesso, il comune è chiamato ad intervenire, imponendo de facto un limite al turismo. Ciò può sembrarci paradossale in quanto l’afflusso turistico, interno o proveniente da altri Paesi, genera delle esternalità positive utili per le persone che vivono in queste zone attrattive, e lo è ancor di più sapere che il regolamento della città olandese parta da un’iniziativa dei cittadini stessi. Ad ogni modo il fenomeno non sembra essere isolato.

Anche in Spagna, città come Valencia e Barcellona, stanno remando contro l’enorme fiumana dell’overtourism (o sovra-turismo). Di risposta, la crescita del malcontento dei residenti e una maggiore strutturazione dell’associazionismo di quartiere, hanno portato ad una serie di cortei volti alla sensibilizzazione della problematica. Davanti ad un aumento costante dei canoni di affitto e una crescita esponenziale dell’abbandono dei contratti in vigore, i residenti si sono trovati a fronteggiare il lato più “oscuro” del turismo. E in Italia come siamo messi? La risposta è facilmente intuibile e delinea un destino comune a tutte le mete turistiche.

Secondo i numeri del rapporto sul turismo sostenibile “Healthy travel and Healthy destinations” del 2018, la città maggiormente colpita dal turismo massivo è Venezia. Nello specifico, rapportando le unità riferite al turismo con i numeri dei residenti, la situazione assume dei connotati grotteschi. Guardando al centro storico il rapporto residenti/turisti è pari a 1 su 370, mentre se si considera l’intero comune del capoluogo veneto lo stesso si attesta “solo” ad 1 su 73,8. Stesse criticità si riscontrano in città come Roma, Firenze, Napoli ed altri luoghi di interesse turistico, con consistenti impatti sulla sostenibilità complessiva, anche di tipo ambientale.

Il sovra-turismo si delinea come una problematica complessa ed organica, che offre numerose riflessioni di natura differente. Occorre ripensare gli spazi in cui la società vive ed opera, abbandonando quell’intrinseca compressione della diversità, che porta a vedere tutti i luoghi, tutte le società e tutte le problematiche uguali, con soluzioni comuni e comunemente attuabili. Il turismo è senza dubbio un fenomeno positivo dal punto di vista culturale ed economico, ma richiede un’estrema consapevolezza del contesto demografico e sociale che andrà ad impattare. L’obiettivo è quello di rispettare le diversità e le singolarità che determinano il vero “valore” di un luogo, evitando quanto espresso dallo street artist spagnolo Escif, in una sua opera sull’ overtourism raffigurante dei parassiti: “Ci sono molti turisti express che arrivano in massa consumando la città, divorando, ingoiando e defecando la scena del crimine”. La vita, con i suoi luoghi ed i suoi significati, non è un prodotto consumabile.

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Francesco Lelli

Nato a Rieti nel 1991, è appassionato di Economia e Scienze Sociali. Attualmente è PhD student presso il Gran Sasso Science Institute (GSSI) in Regional Science and Economic Geography, dove si occupa di studi relativi all’economia applicata a contesti territoriali. Ama la musica e qualsiasi forma di espressione. View more articles. 

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L’Alleanza Draghi Che Rimescolerebbe Le Carte

Gli ultimi 10 anni della politica italiana hanno visto sorgere scenari che hanno lasciato spesso a bocca aperta gli opinionisti. Ricorderemo sicuramente che il “campo da gioco” era occupato interamente da due poli: il PDL (Popolo della Libertà) guidato da Silvio Berlusconi e la coalizione di centrosinistra guidata dal Partito Democratico e dai segretari che si sono succeduti negli anni.

Ad oggi è cambiato tutto, in Italia come nel resto del mondo: pensiamo solo alle elezioni politiche del 2018 e al fatto che nel primo Governo della legislatura in corso ci siano state due forze che hanno poco a che vedere con lo spirito e il modo di far politica dell’ex PDL e del Partito Democratico.

Questo forte cambiamento è stato attribuito ovviamente a quello che molti definiscono fenomeno dei nazionalpopulismi dilaganti. Se restringiamo il campo e prendiamo in considerazione solo il 2021, dal cambio di Governo fino alle ultime elezioni amministrative, ci sono stati dei cambiamenti (e anche molti malumori interni ai partiti e alle varie anime che li compongono) che stanno facendo tornare l’aria di un “evergreen” della politica italiana, ovvero quella di ripensare gli schemi del campo da gioco, con una forza moderata e riformista che possa tener testa e battere populismi ed estremismi.

L’EVERGREEN

L’Italia tradizionalmente ha sempre avuto un’impostazione moderata della politica o, per meglio dire, quest’ultima è sempre stata la parte maggioritaria dello scenario. Gli ultimi anni, quindi, in quest’ottica, hanno rappresentato uno “shock”, molto utile per certi versi, visto lo stallo e la crisi della politica dei precedenti 40 anni più o meno.

Il fatto che oggi si parli nuovamente di un fronte ampio è stato accelerato sicuramente dalla nascita del Governo Draghi e da chi ne ha creato le condizioni ma, in realtà, questo argomento non è mai stato abbandonato. Ricorderemo nei primi anni dalla nascita del M5S e la successiva crescita dei partiti sovranisti che un attuale ministro del PD parlava dell’importanza di creare un “fronte repubblicano” per contrastare l’avanzata di questi movimenti. Non un fronte repubblicano all’americana ma si intendeva prendere i partiti tradizionali (moderati) e cercare di creare un fronte comune per conservare un’idea diversa di politica, meno reazionaria e più concreta. Con sensibilità diverse su alcuni argomenti ma con alcuni punti saldi in comune: europeismo, garantismo, rispetto per le istituzioni.

Oggi sono nati diversi partiti con questa vocazione (Italia Viva, Azione, +Europa, Cambiamo, Noi con l’Italia, Coraggio Italia) e nei due partiti più longevi si sta vivendo un duro dibattito interno in vista del prossimo futuro: infatti, sia nel Partito Democratico che in Forza Italia crescono, giorno dopo giorno, visioni fortemente contrastanti.

IL DILEMMA NEL PD

“Alleanza con il M5S sì o alleanza con il M5S no, questo è il dilemma”. Dalle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre scorsi, lo scenario che si è delineato è stato molto chiaro: il centrosinistra è uscito vincente. Ma attenzione! Tenendo sempre in considerazione un certo distacco tra risultati nazionali e locali, bisogna considerare anche che la coalizione guidata ad oggi dal Partito Democratico non ha vinto ovunque. Il centrosinistra ha vinto, e anche con grande distacco, nei luoghi dove storicamente è radicato e dove si è perseguita la strada delle scelte riformiste. Basta volgere lo sguardo alle elezioni regionali della Calabria per capire una netta differenza. Al contrario del resto d’Italia, in Calabria il PD ha deciso di fare un passo indietro rispetto all’ acclamata candidatura di Nicola Irto per andare incontro alle richieste (imposizioni) dell’alleato Giuseppe Conte, ovvero “per forza donna e per forza lontana dalla politica”. Il risultato è quello che conosciamo bene.

Ad ogni modo, all’indomani dell’uscita dei risultati, i commenti tra i “Dem” sono molto discordanti. Sicuramente sono tutti molto felici delle conferme a Milano e Bologna e del cambio di passo su Torino, Roma e Napoli. Tuttavia, ognuno immagina un futuro diverso. C’è chi ha gridato a gran voce “E ora alleanza nazionale strategica con il M5S” e chi, come il Senatore Andrea Marcucci twitta “L’area di evoluzione più naturale del centrosinistra è verso i liberaldemocratici. Lo straordinario risultato romano di Carlo Calenda conferma che c’è un grande spazio politico con cui è prioritario dialogare” e ancora “I risultati elettorali nella loro evidenza dicono che l’alleanza con il M5S per il Pd non è più strategica”. Salgono quindi i malumori interni, mentre Draghi può continuare a lavorare tranquillamente.

LA FRATTURA IN FORZA ITALIA

Se i “Dem” continuano ad avere posizioni diametralmente opposte rispetto all’alleanza con il movimento pentastellato guidato dall’ex Premier Conte, anche gli azzurri iniziano a barcollare sul tentativo di tenere insieme l’alleanza di centrodestra a guida Salvini/Meloni.

Anzi, a dirla tutta, quanto sta avvenendo tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi è ancora più esplicito. Il Cavaliere sembra voler salvare l’alleanza a tutti i costi, probabilmente per cercare di intestarsi la riuscita vittoria della coalizione unita. Però c’è chi non riesce più a digerire certi toni. È Renato Brunetta, Ministro della Pubblica Amministrazione, che, accodandosi alla sua collega di Governo, Mariastella Gelmini, afferma “non c’è più un centrodestra unito. Ora serve un’alleanza di governo tra popolari, liberali e socialisti”. Del resto, secondo Brunetta, un leader c’è già e si chiama Mario Draghi. Quello che manca, invece, sono partiti all’altezza di Draghi perché: “La colonna portante di ogni Paese dell’Europa è l’opinione moderata”.

MOMENTANEA TATTICA O STABILE STRATEGIA ?

Gli altri partiti nello scenario, invece, sono nati già con una vocazione diversa. Riflettendoci bene, sono quei gruppi dirigenti che un tempo facevano parte o di PD o FI e che non hanno mai voluto digerire le rispettive alleanze con grillini e sovranisti. Da molto tempo, infatti, stanno lavorando per cercare di persuadere gli ex compagni di partito a ritornare su passi diversi, piuttosto che cambiare modo di far politica in favore dei sondaggi.

Ad oggi i leader di questi piccoli partiti possono tirare un forte sospiro di sollievo, in primis Carlo Calenda e Matteo Renzi: il primo uscito con un grande risultato, anche se non vincente, dalle elezioni comunali a Roma; il secondo per essere riuscito, a gennaio, a mettere in crisi lo schema partitico consolidato facendo convergere la maggior parte dei partiti (o parte di questi) su obiettivi comuni.

Al contrario dei dubbi in casa Partito Democratico e Forza Italia, a questi livelli non c’è ombra di dubbio: l’alleanza europeista non è soltanto un modo strategico per allontanare populisti e sovranisti ma anche una grande opportunità per il nostro Paese in Europa che, dopo l’uscita di scena di Angela Merkel dopo 16 anni alla guida della Germania, “grazie a Draghi, ritorna leader e il numero di telefono europeo ha il prefisso italiano” – commenta qualcuno.

Resta da capire se le dichiarazioni dei dirigenti dei vari partiti citati siano delle vere intenzioni o semplici provocazioni per riequilibrare dinamiche interne. E se fosse tutto vero, sarebbe una momentanea tattica per ritornare all’equilibrio moderato del passato o una coalizione del futuro, una sorta di “terza via”?

(Featured Image Credits: huffingtonpost)

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Francesco Palermo

Nato a Soveria Mannelli nel 2000, è appassionato di politica italiana ed è profondamente europeista. Attualmente frequenta il corso di laurea triennale in Economia presso l’Università della Calabria, dove è anche impegnato nella rappresentanza studentesca. È amante della musica e della letteratura. View more articles. 

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Sugar Tax: Il Difficile Trade-Off Tra Sviluppo e Sostenibilità

Almeno una volta negli ultimi due anni si sarà sentito parlare di Sugar Tax. Come spesso accade, però, non sempre si conosce a fondo ciò di cui si dibatte. O comunque, non sempre ciò di cui si dibatte è facilmente definibile.

Di cosa si tratta effettivamente?

Innanzitutto, la Sugar Tax è un’imposta sul consumo di bevande analcoliche edulcorate (vale a dire contenenti edulcorante, ovvero qualsiasi sostanza, di origine naturale o sintetica, in grado di conferire sapore dolce alle bevande), volta a limitare l’assunzione delle stesse, introdotta in Italia ai commi 661-676 della Legge di Bilancio 2020. Essa si applica nella misura di 10€ per ettolitro nel caso di prodotti finiti e 0,25€ per kg nel caso di prodotti predisposti a essere utilizzati previa diluizione.

È esigibile: al momento della cessione di bevande edulcorate da parte del produttore nazionale a consumatori nel territorio dello Stato oppure a rivenditori; per i prodotti provenienti dall’UE, quando l’acquirente nazionale li riceve; quando si importano in Italia bevande edulcorate da Paesi extra UE. Fermo restando la previsione di talune esenzioni, quali ad esempio: in caso di prodotti destinati all’export; o in caso bevande edulcorate il cui contenuto complessivo di edulcoranti sia inferiore o uguale a 25 gr per litro (se si tratta di prodotti finiti) o a 125 gr per Kg (se si tratta di prodotti predisposti a essere utilizzati previa diluizione). Le diverse sanzioni sono previste in caso di: mancato pagamento dell’imposta, ritardato pagamento dell’imposta, tardiva presentazione della dichiarazione (e ogni altra violazione).

Al di là degli aspetti più tecnici, una cui breve trattazione risulta in ogni caso imprescindibile per avere a mente di cosa si sta discutendo, è importante tenere presente che la scelta di introdurre questa imposta in Italia è il frutto della volontà, a livello europeo, di perseguire un fine ben preciso: combattere l’obesità dilagante, soprattutto tra i giovani e i bambini, causata da una tendenziale malsana alimentazione, e molto rischiosa per la salute presente e futura. Un obiettivo secondario che si intende raggiungere percorrendo questa strada è quello di provare a uniformare il sistema fiscale dei Paesi Membri dell’UE, difatti, imposte che si prefiggono lo stesso scopo sono già presenti in ben oltre 30 Stati europei.

Legge di Bilancio 2020 e Plastic Tax.

Prima di giungere al cuore dell’analisi che si intende svolgere, pare opportuno aprire una breve parentesi riguardo a un’ulteriore imposta introdotta dalla stessa Legge di Bilancio 2020, che può essere considerata metaforicamente “la sorella” di quella in esame: la Plastic Tax. Si tratta di un’imposta del valore fisso di 0,45 centesimi per ogni chilo di prodotti di plastica monouso venduto.

Anche in questo caso, quello che si vuole ottenere è il raggiungimento di un traguardo piuttosto importante per quanto concerne l’interesse della collettività: tentare di salvaguardare l’ambiente, riducendone l’inquinamento. E, ancora una volta, si tratta di una missione comune a tutti i Paesi Membri dell’UE. 

Entrambe le imposte, in ogni caso, non sono ancora entrate in vigore, in quanto la forte pressione proveniente dal settore imprenditoriale ha spinto verso ripetuti rinvii. Ad oggi, sembrerebbe che l’entrata in vigore sia prevista per il 2023.

Effetti a breve e lungo termine della Sugar Tax.

L’astio con cui è stata accolta la Sugar Tax da parte degli imprenditori italiani non è, di certo, totalmente immotivato. Il discorso, infatti, non è la difficoltà di comprendere le ragioni sociali alla base di tale scelta, quanto piuttosto lo scetticismo riguardo all’efficacia della stessa nel combattere i disturbi alimentari che mira ad abbattere, nonché la disperazione innegabile di un settore (quello dei soft drinks) già messo in ginocchio da una pandemia mondiale.

L’impatto del Covid sul consumo dei soft drinks, infatti, è stato a dir poco gravoso, e non servono numeri per provarlo, perché basta pensare alla contrazione dei flussi turistici e al diffondersi dello smart working. Sebbene un po’ di normalità dovrebbe significare una ripresa per i prossimi anni, l’introduzione di questa nuova forma di prelievo fiscale, a dire dei lavoratori del settore, impedirà un ritorno ai livelli pre-Covid.

Un altro punto controverso riguarda poi la sua effettiva necessità, per quanto concerne i risultati, in un Paese come l’Italia. Anche qui c’è un po’ di confusione: tra studi che sembrano dimostrare che gli italiani tendono comunque a prediligere un’alimentazione piuttosto sana, analisi che prevedono uno scarso impatto sul consumatore finale dal punto di vista del prezzo, e dati che sembrano invece allarmare in merito allo stato nutrizionale, soprattutto dei bambini. La vera domanda da porsi è, prendendo per veri ed attendibili questi ultimi risultati, se tassare le bevande edulcorate, dimenticandosi degli alimenti contenenti le stesse sostanze, può essere considerata una scelta saggia e coerente.

Sintesi di un sistema in mutamento?

Al di là dei vari dibattiti su quelli che possono essere i pro e i contro di questa decisione, sta di fatto che è ormai una scelta compiuta (e, si spera, anche ben riflettuta).

La realtà dei fatti è che si tratta di un passo che andava compiuto inevitabilmente, perché è la sintesi di un sistema, non solo fiscale, in mutamento. È la sintesi, cioè, di un sistema Paese che si dirige, o almeno ci prova, verso un processo di armonizzazione sempre più intenso e ampio.

Il difficile trade-off tra sviluppo e sostenibilità: ha senso rimandare ancora?

Quindi ci si sta muovendo, ma verso dove? La domanda è piuttosto semplice, forse proprio per questo la risposta è molto complessa.

Ormai sempre più, le scelte politiche ed economiche intraprese da chiunque sono mosse da due fini: la sostenibilità e lo sviluppo. Ampliare il concetto di sostenibilità, attribuendogli una triplice accezione (economica, ambientale e sociale), è stato il punto di partenza di un percorso intrapreso un po’ di tempo fa. Avere tutto e subito, come si sa bene, non è però possibile, soprattutto quando gli interessi coinvolti sono di una certa portata.

Il punto della questione, quindi, è capire come conciliare la salvaguardia di un ambiente in condizioni degradanti, la ripresa di un’economia in ginocchio e la tutela di diritti sociali indispensabili. Si tratta di un equilibrio che ancora non è stato trovato, e che sicuramente non sarà mai facile da mantenere.

Contestualizzando, è un dato di fatto che nuove entrate per lo Stato italiano potrebbero portare potenziali benefici futuri, ma i soggetti interessati dalle stesse dovrebbero sostenere dei sacrifici e dei costi, molto probabilmente, irrecuperabili. Certamente, tornare sui propri passi è un segno di debolezza e incertezza che non dovrebbero esistere. Per questo, forse, l’opzione rimasta è una sola: sfruttare al meglio il tempo che si ha a disposizione per cercare di capire come prepararsi ad affrontare la nuova sfida, tentando di far leva sui benefici che la stessa può portare con sé.

A volte, il pregiudizio negativo su qualcosa tende ad essere un limite per vederne le potenzialità.

Come sempre, si sceglie di concludere con una domanda, che vuole essere un invito a riflettere: è sempre possibile (e sempre necessario), trovare un perfetto bilanciamento?

(Featured Image Credits: easytaxassistant.it)

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Mafalda Pescatore

Nata ad Avellino nel 2001. Ha conseguito il doppio diploma ESABAC. Frequenta il corso triennale di economia e management presso la LUISS Guido Carli, a Roma. Innamorata della cultura, da sempre. Particolarmente interessata a tematiche di attualità di natura politico-economica. Nel 2019 ha recensito e giudicato i romanzi iscritti alla finale del Prix Goncourt. Nel 2020 è stata volontaria per l’UNICEF, contribuendo a pubblicizzare il Progetto Pigotta. View more articles. 

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Quanto Contano I Diversi Sport In Italia: Tra Riaperture Negli Stadi e Chiusure nei Palazzetti

Lo sport italiano nella sua interezza chiede al governo di ripartire. Quest’ultimo, però, risponde con protocolli diversificati, quasi come a dare più importanza ad uno sport piuttosto che ad un altro. La pandemia di coronavirus ha inciso marcatamente nei già fragili equilibri del mondo sportivo italiano, ma ad oggi la situazione epidemiologica sembra essere molto più rosea delle aspettative. La campagna vaccinale portata avanti fa registrare l’81% della popolazione over-12 completamente immunizzata (www.governo.it) e a rassicurare è anche una risposta più che convincente dalla fascia giovanile, che maggiormente affolla i teatri del gioco. Le misure anti-contagio che regolano gli ambienti chiusi, così come gli spazi aperti, appaiono in linea con quel “rischio controllato” di cui il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha sempre parlato, per tutti da assumere inevitabilmente a causa dell’alta aleatorietà dei meccanismi di trasmissione.
In tale situazione appare scontata la reintroduzione di una componente fondamentale per ogni sport, ovvero i tifosi, relegati durante la gran parte delle passate stagioni ad un esilio forzato. Una platea di tifosi calorosa può cambiare il volto delle gare, riuscendo a dare una mano ai propri beniamini in campo e ciò viene confermato dalle parole degli addetti ai lavori. Il Commissario Tecnico della Nazionale italiana di calcio, Roberto Mancini, il 5 luglio scorso affermava: “Meglio giocare davanti ad uno stadio pieno piuttosto che davanti a poche persone, perché credo sia il bello del calcio come di ogni spettacolo.”, ma l’impressione è che questo sia il sentore comune alla maggior parte dei protagonisti. Come si diceva in fase di apertura, il percorso per riportare la gente negli stadi e nei palazzetti è risultato più tortuoso del previsto ed all’orizzonte la soluzione definitiva appare ancora piuttosto lontana. Ad oggi è permessa l’affluenza negli stadi all’aperto per il 75% dei posti disponibili, ai soli possessori del Green Pass e ciò permetterebbe agli sport che godono di tale caratteristica di fare un enorme passo in avanti rispetto al recente passato. Per fare una stima si prenda ad esempio il comunicato diramato dalla Juventus F.C sulla situazione economico-finanziaria relativa al primo semestre 2020-2021: nella nota si legge che le perdite dovute ai mancati ricavi da gare, vendite di prodotti, licenze ed affini, ammonta a 39 milioni di euro, cifra considerevole se affiancata alla perdita totale dell’esercizio di circa 113 milioni di euro. L’aumento delle possibilità dovute all’ultimo decreto governativo è visibile e se da una parte Giovanni Malagò, Presidente del CONI, afferma che sarebbe disposto ad interloquire con il governo per una possibile riapertura al 100% di capienza, lo stesso conferma che tale soluzione sarebbe piuttosto marginale nella maggior parte dei casi, riferendosi ad una tendenza negativa nel numero di persone che effettivamente si recano allo stadio. Questa tendenza negativa è stata solo in parte sopperita dai club dall’aumento dei ricavi dovuti ai diritti televisivi o di altre piattaforme streaming. Ma la fortuna in questo caso – come in molti altri – si ferma ai club calcistici di alto livello.
La situazione muta notevolmente se si getta lo sguardo oltre la siepe. Dopo il calcio, attenendosi al numero di atleti ufficialmente tesserati con il CONI, la pallavolo ed il basket sono gli sport più praticati nel nostro paese. Ciò che accomuna questi ultimi due è la completa dipendenza da una struttura al chiuso per lo svolgimento delle gare ed allora, in contrasto con la situazione epidemiologica, il governo ha varato una serie di restrizioni differenti per la presenza del pubblico alle partite.

Umberto Gandini, a.d. Lega Basket Serie A.
Credits: FABRICE COFFRINI/AFP via Getty Images

Umberto Gandini, presidente della Lega Basket Serie A, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport si è mostrato deluso e amareggiato del trattamento riservato: ad oggi, soltanto il 35% della capienza totale dei palazzetti può essere coperta dal pubblico, mostrando una netta controtendenza con i dati nazionali per gli sport all’aperto, ma anche con le percentuali europee degli impianti al chiuso. L’ipotesi paventata dell’aumento di tale percentuale fino al 50% è ancora osteggiata dalla figura preminente del basket italiano, visto che i dati del riempimento medio dei palazzetti in Italia è del 73%. Secondo Gandini l’accesso con Green Pass ai palazzetti garantirebbe l’estrema protezione per i tifosi, dato che anche nel caso di una copertura totale dei posti disponibili ogni individuo dovrà attenersi alle precise direttive del governo da attuare nei luoghi al chiuso, riducendo i rischi di contagio al minimo. Con un trattamento del genere, dice lo stesso Gandini, si rischia di far passare un’immagine degli impianti come dei luoghi non sicuri, minatori della salute pubblica. La data del 10 ottobre, fissata dapprima per la risoluzione di tali controversie e l’aumento della capienza nei palazzetti dal 35% al 50% è stata prorogata, dando un ulteriore segnale di contrapposizione da parte del governo, nonostante il CTS abbia ratificato che i benefici di tale aumento supererebbero di molto gli eventuali rischi.

Questa situazione, dagli strascichi inevitabili per tutte le parti in gioco, mette in luce un problema ancora evidente nel nostro paese: la cultura sportiva in Italia è pienamente viziata da quella calcistica. Lo sport non è considerato a trecentosessanta gradi come attività formativa e non incoraggiato nelle sue molteplici accezioni, ma per gran parte del paese è solamente riconducibile al calcio, con buona pace delle politiche governative. In questo caso è controproducente farne una questione economica, poiché se da una parte è lampante che gli indotti provenienti dal calcio per tutte le attività collaterali sia preminente, dall’altra non devono essere dimenticati i benefici provenienti dalla narrazione dello sport nelle sue forme più disparate, soprattutto per le nuove generazioni. Tra gli sport le cui gare si svolgono in luoghi aperti e quelli legati ad impianti al chiuso la distinzione di trattamento è netta e non può far altro che aumentare il divario di attenzione che si riserva ad una parte piuttosto che all’altra. In questo contesto una famiglia può portare i figli allo stadio con molta più facilità rispetto che in un palazzetto che ospita una gara di pallavolo, piuttosto che una competizione di ginnastica artistica, precludendone la conoscenza di un mondo che potrebbe abbracciare ed amare.
Se si spera nel cambiamento, nell’anno dei maggiori successi italiani in ogni contesa sportiva, la presa di posizione da parte degli “svantaggiati” deve essere dura, mostrando con chiarezza i pro di una narrazione ampliata degli aspetti del gioco, con il fine di educare le nuove leve alla conoscenza delle particolarità di ogni sport.

(Featured Image Credits: Arezzo Notizie)

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Camillo Cosenza



Nato a Cosenza nel 1999, è un grande appassionato di sport, economia e politica. Frequenta il Corso di Laurea triennale in Ingegneria Gestionale all’Università della Calabria. Ama anche la storia e la filosofia, passioni nate durante il periodo liceale. View more articles

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Riforma Cartabia: Il Processo Penale È, Ancora Una Volta, “Nuovo”.

Che il settore Giustizia, in Italia, necessiti di una generale riforma è a tutti chiaro, ormai da tempo. Il sistema processuale, sia civile che penale, soffre di grandi interrogativi nella teoria che, inevitabilmente, si ripercuotono sulla pratica in maniera evidente. E questo, ricordiamolo, non intacca solo l’amministrazione della Giustizia di per sé considerata, ma la vita di ognuno di noi. Un sistema improntato su una tradizione che ormai sembra essere sconosciuta alla modernità tecnologica dei nostri tempi, una durata dei processi che è tutt’altro che “ragionevole”, sono due dei temi che risultano stare alla base della nuova Riforma Cartabia. Questa infatti, si ripropone, attraverso modifiche processuali e sostanziali, strutturali ed organizzative, di implementare i caratteri dell’efficienza e della stabilità.

È il 23 settembre scorso quando il Senato approva il disegno di legge per la riforma del processo penale, il 3 ottobre successivo la – ormai – legge viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale. La Riforma Cartabia fa parte di una serie di progetti di cui si fa carico il Governo in attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR), nel più grande ambito dei fondi stanziati dal Next Generation EU.

Che cosa prevede la riforma?

La buona riuscita della riforma della Giustizia ruota intorno allo strumento della delega, con la quale il Parlamento affida al Governo il potere di attuare e quindi, individuare, i principi e criteri generali per garantire una migliore efficienza del sistema giurisdizionale. Il provvedimento, infatti, contiene criteri direttivi cui dovranno attenersi i decreti legislativi che dovranno essere emanati in un anno dall’entrata in vigore della legge.

In particolare, la riforma si compone di due articoli: un primo con il quale il Parlamento delega il Governo, un secondo con il quale si attuano modifiche dirette al codice penale e a quello di procedura penale.

Il meccanismo di improcedibilità.

Le materie oggetto di delega sono tante, ma il punto intorno al quale si è acceso un forte dibattito politico è senz’altro quello del meccanismo di improcedibilità, e quindi della tanto controversa prescrizione. Così come da Ministero della Giustizia, “le misure contenute nell’Atto Senato n. 2067 mirano principalmente a semplificare e rendere spedita la celebrazione dei processi penali, dando attuazione al principio della ragionevole durata del processo”. Non è infatti sconosciuto il grande problema della lentezza dei procedimenti nella giustizia penale; motivo per il quale l’Italia conta ben 1202 richiami da parte della Corte di Strasburgo per violazione del principio di ragionevole durata del processo. Secondo una stima il processo penale durerebbe in media 4 anni.

È, quindi, in nome di esigenze di economia processuale che la Riforma Cartabia introduce il cd. meccanismo di improcedibilità prevedendosi una durata massima per ogni grado di giudizio: 2 anni per l’appello, 1 anno per la Cassazione. Questo sistema conosce tuttavia delle eccezioni. Una prima generale è a discrezione del giudice che può prorogare il termine per l’appello di 1 anno, e ulteriori 6 mesi per la Cassazione. Ancora, per alcuni processi particolarmente gravi, come quelli per mafia, terrorismo, violenze sessuali è concessa la proroga all’infinito. Per ultimo, sono sottratti al meccanismo della prescrizione i procedimenti di reati puniti con l’ergastolo. L’obiettivo è, in ogni caso, quello di ridurre il 25% del contenzioso penale.  Lungo tale direzione, la riforma introduce vari criteri decisori volti a smaltire il contenzioso. Il primo fra tutti è la possibilità di instaurare il processo solo nei casi in cui sia ragionevole una previsione di condanna.

Sebbene il cuore della riforma sia quello appena descritto, vi sono ulteriori materie su cui questa interviene che meritano di essere richiamate. Se è vero che il processo penale necessita di una maggiore efficienza, la riforma non può prescindere dalla sua digitalizzazione. I meccanismi tradizionali di notificazione e comunicazione, con i quali si informano i diretti interessati dello svolgimento del procedimento, lasciano il posto al deposito di atti in via telematica. Questo non risponde solo ad esigenze di adattamento al mondo odierno, ma contribuisce anche ad evitare inutili perdite di tempo. Questo il motivo per il quale, con l’entrata in vigore della legge, tutte le modalità non telematiche ormai sono eccezionali.

Ancora, una riforma generale non può guardare dall’altro lato ed ignorare il grosso problema del sovraffollamento carcerario. Analizzando le sue radici storiche, la pena carceraria è sempre stata la punizione generale e principale, rispetto a tutte le altre sanzioni sostitutive. Ecco quindi che la riforma, con una serie di criteri e direttive, implementa l’utilizzo e la maggiore adozione della pena pecuniaria, semi libertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità, quando possibile.

Intorno alla Riforma Cartabia si levano voci contrastanti: chi lo ritiene un intervento necessario, chi, invece, crede che sia approssimativo, non incisivo. In particolare, le posizioni del Movimento 5 Stelle e di Giuseppe Conte –  già agli antipodi della presentazione del disegno di legge – erano chiare: la facoltà di attribuire al Governo ampio potere di scelta nell’esercizio dell’azione penale, viene vista come una grande ingerenza della politica nel settore giudiziario. E così come il Consiglio Nazionale della Magistratura ribadisce, vi è un vero e proprio “contrasto con l’assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato, perché ciò rispecchierà le maggioranze politiche del momento”.

In ogni caso, è necessario avere consapevolezza dell’impossibilità di mutare a 360 gradi il sistema della giustizia italiana con un’unica riforma, a causa della sua complessità. Posto ciò, si è in attesa dei primi risultati della Riforma Cartabia ed intanto, ancora una volta, si apprezza lo sforzo.

(Featured Image Credits: La Stampa)

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Enrica Cucunato

Nata nel 1999 a Cosenza, appassionata di cronaca giudiziaria, giornalismo d’inchiesta e politica estera. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Alma Mater Studiorum a Bologna. Durante la sua formazione universitaria ha avuto l’opportunità di seguire corsi presso la Gazzetta di Bologna. Nel 2015 ha viaggiato negli Stati Uniti, dove ha potuto approfondire, presso la New York University, quelle che sono due delle sue passioni più grandi: la danza e l’inglese. Appassionata di libri riguardanti lo studio delle criminalità organizzate e le più grandi inchieste giudiziarie, i suoi interessi riguardano anche la lettera e il cinema. View more articles

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La Presidenza Italiana Del G20: Tra Crisi Afghana, Economia E Ambiente

“Persone, pianeta, prosperità”, queste le tre parole chiave del G20 di Roma del 30 e 31 ottobre, presieduto dal Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. In vista della conferenza, questo martedì, si è tenuta una riunione straordinaria dei leader G20 per via telematica con, in cima all’agenda politica, la crisi afghana.

Image Credits: g20.org

La conferenza straordinaria e il nodo Afghanistan

Al termine della conferenza straordinaria pre-G20, tenutasi il 12 ottobre, il premier Draghi si è detto soddisfatto dell’incontro «fruttuoso» e della «convergenza di vedute» riguardo alla risposta alla crisi in Afghanistan.

Tale sforzo congiunto dovrebbe tradursi in un mandato alle Nazioni Unite, un ampio «ombrello» in termini di organizzazione e interventi concreti, sotto il quale convergerebbero gli Stati, la stessa UE e i giganti finanziari come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale. Si tratterebbe di una risposta su più piani, dal sostegno per impedire il «collasso economico del Paese», all’accoglienza dei migranti, la lotta al terrorismo, l’impegno a garantire i diritti delle donne e l’accesso all’istruzione.

Image Credits: g20.org

Il G20 di Roma

I tre pilastri del G20 di Roma incentreranno l’agenda politica del summit tra le più grandi potenze del mondo su questioni come equità, tutela ambientale, sfida pandemica, crescita e stabilità finanziaria e sostegno alle economie vulnerabili.

(Featured Image Credits: Ambasciata d’Italia Washington)

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 Valeria Pia Soricelli

Nata a Benevento nel 1998, è appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, con particolare interesse verso il Medio Oriente. Ha conseguito il diploma di maturità classica e la laurea triennale in Scienze Politiche. Attualmente è studentessa del corso magistrale in International Relations presso la LUISS Guido Carli e sta svolgendo il tirocinio nella sezione Relazioni Bilaterali dell’Ambasciata Britannica di Roma. Ha inoltre partecipato al programma Erasmus+ presso l’Institut d’études politiques Sciences Po Paris. Da includere tra le sue varie passioni anche la musica rock, il canto e il cinema francese. View more articles. 

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La Pillola Anti-Covid Della Casa Farmaceutica Merck: Una Ragione In Più Per Essere Ottimisti

La pandemia causata dal Covid-19 è iniziata ormai da più di un anno e mezzo. Lockdown e allentamenti delle misure restrittive si sono alternati ciclicamente non solo in Italia ma in tutto il mondo. Ciò che ha accomunato tutte le fasi del complesso periodo storico che stiamo vivendo è stata la ricerca affannosa di un vaccino contro il nuovo Coronavirus. Se da una parte c’è stato chi ha tirato un sospiro di sollievo, dall’altra, alla perplessità per la velocità con cui i vaccini sono stati messi a punto, si sono alternate vere e proprie crociate no-vax. Le campagne vaccinali sono ad un ottimo punto almeno nei Paesi occidentali. Ma come cambierebbe la nostra vita se venisse commercializzata una pillola da prendere comodamente a casa per curare il Covid? Questa domanda dobbiamo porcela, perché tale futuro potrebbe presto trasformarsi in realtà. Vediamo perché.

LA TEMERARIA SFIDA DELLA MERCK&CO

L’azienda Merck&Co, filiale statunitense della società Merck KGaA, ha le idee chiare: brevettare il primo antivirale somministrato per via orale contro il Covid-19. La “pillola Merck” è un farmaco a base di molnupiravir, che agisce contro un enzima di cui il Sars-CoV-2 necessita per replicarsi nell’organismo. Vanno assunte quattro pillole al giorno per cinque giorni, ed il farmaco aumenta la sua efficacia se somministrato entro cinque giorni dalla comparsa dei sintomi di infezione da Coronavirus, quindi nelle prime fasi della malattia. Rispettando queste tempistiche, il farmaco sarebbe in grado di dimezzare il rischio di ricoveri e di decessi per i pazienti adulti affetti da Covid in forma lieve o moderata. 700 dollari è il costo per ogni ciclo di terapia.

La “pillola Merck” può non solo essere assunta senza somministrazione o sorveglianza medica ma anche, fattore ancor più cruciale, senza ricorrere all’ospedalizzazione, evitando di gravare sulle strutture sanitarie, i cui reparti Covid fagocitano posti letto (non solo in terapia intensiva) che potrebbero essere destinati a persone con altre patologie. Uno studio clinico effettuato su 775 pazienti non vaccinati ha dato risultati incoraggianti.

LA CORSA PER IL PRIMATO

La Merck ha intenzione di richiedere il prima possibile l’approvazione emergenziale della sua pillola a base di molnupiravir alla Food and Drug Administration, scalzando così la Pfizer, che ha da poco avviato l’ultima fase di studio su due diverse pastiglie antivirali, e la Roche, che sta sviluppo un farmaco molto simile. L’azienda si è detta pronta a consegnare 10 milioni di dosi già entro la fine dell’anno.L’immunologo di punta della Casa Bianca Anthony Fauci si è detto impressionato dai risultati della pillola Merck: gli USA sono stati il primo Paese a stipulare un accordo con la casa farmaceutica e, una volta acquisito il via libera dalla FDA, riceveranno 1,7 milioni di dosi di molnupiravir. Anche altri Stati si sono messi in comunicazione con la Merck. Inoltre, l’Agenzia europea del farmaco ha preso in considerazione la rolling review, uno strumento regolatorio cui l’EMA ricorre per accelerare la valutazione di un medicinale che si mostra promettente durante un’emergenza sanitaria pubblica.

UNA SOLUZIONE PER I PAESI POVERI

La “pillola Merck” potrebbe rappresentare uno strumento efficace, almeno temporaneamente, per i Paesi più poveri, dove i tassi di vaccinazione sono molto bassi. Da parte sua, la Merck non si è tirata indietro davanti alla responsabilità sociale che il suo ruolo richiede nei confronti degli Stati con disponibilità economica più limitata. Innanzitutto, la casa farmaceutica differenzierà i prezzi a vantaggio di questi Paesi e ha preso contatti con cinque aziende che producono farmaci generici in India per aumentare la produzione dell’antivirale. Inoltre, non richiedendo particolari condizioni per il trasporto, potrebbe essere portato agevolmente anche nelle aree più remote.

L’ “EFFETTO PILLOLA” NEI MERCATI FINANZIARI

La guerra al primato per la commercializzazione della pillola è solo una faccia della battaglia della Merck. Infatti, Dopo aver annunciato la sperimentazione di un farmaco da assumere a casa per via orale, il titolo della casa farmaceutica è volato di oltre il 9% a Wall Street, mentre sono scesi in picchiata quelli di Novavax, Moderna e Biontech. Questa può essere considerata una fotografia in numeri del futuro nella battaglia al Covid che vuole imporsi sullo stato di cose presenti.

Mentre alcuni Paesi stanno valutando la possibilità di somministrare una terza dose di vaccino ed altri hanno già iniziato a farlo, è inevitabile interrogarsi sul ruolo che la “pillola Merck” potrebbe avere nella lotta al Covid. Psicologicamente, avere una cura affidabile nei casi di infezione lieve o con un rischio moderato, da assumere senza allontanarsi dalle mura domestiche, potrebbe far tirare un sospiro di sollievo a coloro i quali hanno ripreso a frequentare spazi sociali, come gli studenti e in generale i lavoratori non in smart-working che ritornano ad interagire con i colleghi e gli utenti. Sicuramente, potremmo avere una nuova arma da non sottovalutare. 

(Featured Image Credits: Tgcom24)

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Sofia Annarelli 

Nata a Napoli nel 1999, ha conseguito una laurea triennale in Scienze Politiche e sta attualmente frequentando il corso di laurea magistrale in Global Management and Politics presso la LUISS. Adora viaggiare, leggere e scoprire nuove culture. È una grande appassionata di quella statunitense: ha visitato molte volte questo Paese e nel 2019 ha preso parte ad una simulazione di una seduta delle Nazioni Unite a New York. View more articles. 

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Elezioni Amministrative: Crolla Il “Populismo” Ma Anche L’Affluenza. Governo Draghi A Rischio?

Nel centrodestra Salvini è in difficoltà, Fratelli D’Italia regge ma non stravince. A sinistra, Letta può gioire per la ritrovata, anche se probabilmente temporanea, centralità del PD ma l’alleato di governo – il Movimento 5 Stelle – è a rischio estinzione. Nel frattempo, iniziano ad emergere nuove tensioni nell’esecutivo: Draghi prosegue ma attenzione ai mal di pancia leghisti. In tutto questo, il bilancio sull’affluenza per le elezioni comunali è marcatamente negativo. La grande sfiducia dei cittadini nei confronti della politica si fa sempre più evidente.

Il Pd di Letta sorride, il M5S di Conte collassa

A fronte di un risultato complessivo largamente atteso – con la vittoria del centrosinistra a Milano, Napoli e Bologna e il ballottaggio fra le due coalizioni principali a Roma e Torino – il voto amministrativo ci consegna un quadro profondamente mutato per quanto concerne gli equilibri fra le principali forze politiche. Il Pd è indiscutibilmente il vincitore di queste elezioni, d’altronde riesce a imporsi al primo turno in molte città e a Roma e Torino ha buone possibilità di farcela al secondo turno. Il partito di Letta – prima forza politica a Milano, Torino, Bologna e Napoli – ben cosciente del risultato ottenuto avrà la possibilità di consolidare il progetto di allargamento al M5S oppure di ricercare un’apertura a quei soggetti centristi che potrebbero essere interessati ad una qualche forma di collaborazione (in primis Calenda). Tuttavia, è doveroso notare che il Pd non è primo partito a Roma, tra le grandi città, dove, alle spalle della lista Calenda, FdI con il 17,4% supera il 16,4% dei democratici. Dall’altra parte, il Movimento fondato da Grillo, nonostante l’impegno di Giuseppe Conte in campagna elettorale, continua il suo trend di declino nelle urne. Anche con la nuova leadership dell’avvocato del popolo, il M5S certifica ancora una volta la sua scarsa competitività a livello locale, non confermando nessun sindaco uscente e non aggiudicandosi nemmeno l’accesso al ballottaggio con i propri candidati. Al momento, il M5S rappresenta il junior partner per il PD con un forte radicamento nel Sud.

 FdI punta alla leadership della coalizione mentre la Lega è in difficoltà

Il partito della Meloni è certamente l’altra grande forza politica che può sorridere in virtù di questo risultato. Oltre al successo romano, Fratelli d’Italia avanza dappertutto e si impone per la prima volta come lista più votata del centrodestra. Nonostante l’ultimo periodo di campagna elettorale sia stato alquanto duro per FdI (ci si riferisce all’inchiesta di Fanpage sul finanziamento illecito della campagna elettorale milanese di Fratelli d’Italia che ha visto coinvolto il capo delegazione al Parlamento europeo Carlo Fidanza), il partito della Meloni può essere considerato, insieme al Pd, unica forza politica a non diminuire il proprio consenso ma, anzi, a rafforzarlo ulteriormente. In casa Lega, invece, le cose si complicano: le accuse nei confronti dell’ex capo della comunicazione di Salvini, Luca Morisi, nell’ambito dell’indagine per cessione e detenzione di sostanze stupefacenti, hanno inciso negativamente sul gradimento del partito, il quale già da molti mesi mostra una tendenza sempre più calante di consensi. 

Crollo dell’affluenza

Rispetto alle ultime elezioni comunali, emerge con forza il dato estremamente negativo dell’affluenza: con un tasso di partecipazione al voto del 54,7%, viene registrato un calo di quasi sette punti percentuali rispetto alle amministrative di cinque anni fa (61,6%).  Mettendo a confronto le politiche del 2008 con le comunali del 2011 vi erano 10 punti di differenza, confrontando le politiche del 2018 con le ultime comunali la differenza è di 18 punti. Un aumento marcato anche se va detto che in mezzo c’è stata la pandemia, che qualche effetto l’ha sicuramente prodotto. Ma, pandemia a parte, però, si può dire che le elezioni comunali – che, in una fase della politica italiana che appare ormai lontana, sembravano al centro del confronto e avevano effetti cruciali nel modificare gli scenari politici – oggi sembrano attrarre scarsa attenzione da parte degli elettori: la partecipazione sembra ormai non molto lontana da quella delle elezioni europee, tradizionalmente poco considerate dall’elettorato. Inoltre, in queste comunali le differenze di affluenza tra Nord e Sud si annullano: il calo nella parte settentrionale del Paese è molto più marcato. La spiegazione di questa anomalia della partecipazione deve probabilmente essere cercata nel peso della personalizzazione dei consensi, tradizionalmente più presente nelle regioni meridionali.

Ripercussioni sull’esecutivo

«Il risultato delle elezioni non ha indebolito il governo, ma non so neppure se l’abbia rafforzato». È questo il primo commento di Mario Draghi a seguito del risultato delle elezioni. Dopo il voto il governo è più stabile o rischia? Rispondere non è facile: lo stesso Presidente del Consiglio non è stato in grado di farlo con convinzione. Anche se le sue parole, raffreddando l’entusiasmo di Enrico Letta circa l’effetto positivo della vittoria del Pd sul governo, hanno avuto una leggera inflessione pessimistica. In questo clima la salute del governo Draghi è quantomeno sotto stress ma, probabilmente, questo voto avrà un impatto solo sugli equilibri interni dei partiti – e delle coalizioni – e non sul governo in sé. Ma la sconfitta in questa tornata elettorale porterà quasi sicuramente Salvini a far pesare di più la presenza della Lega al governo su certi temi, come immigrazione, tasse e pensioni. 

Quelle amministrative certo sono elezioni locali. La politica nazionale e l’azione di governo sono un’altra cosa. Ma tra le une e le altre c’è sempre un nesso: specie nell’attuale contesto. Dopo le amministrative, infatti, proprio per il loro esito circa i nuovi rapporti di forza tra i partiti politici, un dato appare chiaro: il governo Draghi si avvia a un destino più incerto di quanto non fosse prima del voto. 

(Featured Image Credits: Today)

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Luca Cupelli

Nato a Cosenza nel 1998, è appassionato di storia risorgimentale, politica italiana e relazioni internazionali. Dopo una laurea triennale in scienze politiche, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Governo, Amministrazione e Politica presso l’università LUISS Guido Carli di Roma. Nel 2019 ha lavorato come analista politico tirocinante presso l’Ambasciata degli Stati Uniti. È un grande fan della musica anni ’80 e delle serie tv americane. View more articles

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Guasto di Facebook, Instagram e WhatsApp: Infrastrutture in Bilico? Facciamo Chiarezza

«Could I interest you in everything?
All of the time?
A little bit of everything
All of the time
Apathy’s a tragedy
And boredom is a crime
Anything and everything
All of the time».

Nella canzone “Welcome to the Internet”, inserita nel comedy special “Inside” distribuito da Netflix, il celebre comico statunitense Bo Burnham afferma che Internet ci offre «qualsiasi cosa e tutto quanto, per tutto il tempo». Per alcuni paesi, come l’India, l’idea di Internet coincide con Facebook. Più di tre miliardi e mezzo di persone al mondo usano Facebook, Instagram, Messenger e WhatsApp per restare in contatto con amici e parenti, espandere la propria attività attraverso la pubblicità, creare contenuti monetizzandoli, e così via. Non solo: Facebook è anche usato per accedere a molte altre app e servizi terzi, come reti di e-commerce o dispositivi casalinghi connessi a Internet. Ora, immaginate se qualcuno “cancellasse” Facebook e Instagram. Quante persone sarebbero nei guai? Quanti influencer avrebbero dei danni economici enormi? Quanti organizzatori di eventi farebbero fatica a comunicare con i partecipanti? Quante persone non riuscirebbero più a contattarsi? Quanti termostati e Smart TV non risponderebbero al controllo dei rispettivi proprietari?

È passato poco più di un decennio dall’arrivo dei social e sono già essenziali, a tal punto che possiamo definire platformization la centralità delle piattaforme digitali nella vita sociale contemporanea. Lo stesso Mark Zuckerberg ha definito Facebook «un’infrastruttura sociale». Ma come per tutte le infrastrutture – piccole o grandi, visibili o non: ponti o reti elettriche o server o autostrade – ci si accorge della loro esistenza solo nel momento in cui si rompono. Lo scorso 4 ottobre i servizi di proprietà di Facebook hanno ripreso a funzionare dopo circa 6 ore di interruzione.

L’ultimo malfunzionamento di grossa portata risaliva all’aprile del 2019. Se le infrastrutture falliscono, lo si nota sempre: una volta percepite come generalmente inaffidabili, anche il significato stesso di “infrastruttura” cambia, diventando sinonimo di “precario”, ovvero non essere degno di fiducia. E ci vuole molta fiducia – molto tecno-ottimismo – nei confronti di una piattaforma per arrivare ad affidargli tutto, perfino la domotica (cioè l’automazione) degli stessi uffici in cui si lavora. Di certo, questo tecno-ottimismo è associato all’immagine che l’azienda-piattaforma costruisce di sé per apparire solida.

Dallo scorso lunedì, Facebook e i suoi servizi appaiono meno solidi che mai, ma per fortuna non c’è stato alcun problema di cybersecurity. Dopo la smentita dell’ipotesi di correlazione con il caso della whistleblower Frances Haugen, infatti, la compagnia stessa ha rilasciato un comunicato ammettendo l’errore tecnico nell’errata configurazione dei server di Facebook in un aggiornamento di routine. Nel dettaglio, c’è stato un cambiamento nell’infrastruttura dei border gateway protocol (BGP) destinati a coordinare il traffico di dati tra i suoi centri. Di conseguenza, sono state interrotte le comunicazioni e – a cascata – anche quelle di altri centri dati. Il BGP è uno dei sistemi che Internet usa per far indirizzare il traffico dove deve andare e nel modo più veloce possibile. Visto che ci sono tonnellate di diversi provider di servizi internet, router e server responsabili della trasmissione dei dati a Facebook, ci sono miliardi di percorsi diversi che i dati potrebbero intraprendere.

Quando, però, le “mappe” che il BGP può rilevare non sono corrispondenti tra loro, l’infrastruttura vacilla. Il ponte cade. E il ponte univa strade all’interno di Facebook. Il BGP ha avuto ripercussioni anche sui DNS (“domain name server”), ossia il modo in cui i computer sanno a quale indirizzo IP può essere trovato un sito web. In pratica, è sembrato come se Facebook comunicasse al resto di Internet di togliere i suoi server dalle loro mappe e, come conseguenza, non esisteva più la “città-Facebook” che le mappe indicavano: Facebook e i suoi servizi erano spariti. Il centro operativo di sicurezza globale di Facebook ha rilevato che l’interruzione è stata «un rischio ALTO per le persone, un rischio MODERATO per gli asset e un rischio ALTO per la reputazione di Facebook».

Alex Hern, tech journalist per il Guardian, ha sintetizzato la vicenda su Twitter in maniera ironica, raccontando che il problema è che Facebook fa funzionare tutto tramite Facebook stesso, quindi quando i server sono stati “cacciati” dall’Internet, è sparita anche la possibilità di poter inviare i dati, nonché la capacità di fare il login per inviarli, e – addirittura – la capacità di usare la chiave magnetica dell’entrata dell’edificio che contiene fisicamente i server, che a loro volta controllano i sistemi di invio dei dati. Come se non bastasse, era impossibile perfino ricorrere al servizio di messaggistica per contattare il capo della sicurezza al fine di richiedere una chiave fisica per entrare al data centre senza dover ricorrere al sistema inutilizzabile di chiavi magnetiche: Facebook è scomparso dall’Internet e i dipendenti sono rimasti fuori dalle loro stesse sedi.

Gli stessi sentimenti di incertezza e vulnerabilità che ora accompagnano il lavoro, l’istruzione, la gestione pandemica e molti altri aspetti della vita contemporanea sono anche parte delle infrastrutture in cui opera quella vita. Rifiutare soluzioni alla precarietà infrastrutturale produce confusione e paura. Forse Zuckerberg e colleghi, oltre a cambiare le serrature delle proprie sedi, dovrebbero ripartire da questo.

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Margherita Pucillo

Nata ad Anzio nel 1999, è particolarmente interessata alle interazioni tra tecnologia e società, alla comunicazione pubblica della scienza e alle politiche di genere. Dopo la maturità classica e la laurea triennale in Scienze Politiche, sta proseguendo il suo percorso universitario presso la LUISS Guido Carli con il corso magistrale in Governo, Amministrazione e Politica, indirizzo Politica e Comunicazione. Da un biennio è membro della Consulta Giovanile del Pontificio Consiglio della Cultura. Tra le sue passioni ci sono anche la scherma, il laboratorio teatrale e lo speaking radiofonico. View more articles.

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Legge Di Bilancio: Più Fiducia E Investimenti Per L’Italia

Weekend pieno di tumulto per il Consiglio dei Ministri che lo scorso mercoledì ha dato il via libera alla Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza. È stato proprio il premier Mario Draghi a spiegare, durante la conferenza stampa di presentazione della NaDEF, che “il quadro economico è di gran lunga migliore di quello che noi stessi pensavamo potesse essere cinque mesi fa”. 

Il 2021 è stato un anno abbastanza pesante per quanto riguarda il versante economico e, proprio per questo, il premier ha ampiamente ringraziato il ministro dell’economia Daniele Franco, e tutti i suoi collaboratori, per l’impegno che hanno dimostrato nel dare all’Italia ben tre leggi di bilancio durante la crisi pandemica.

Cosa si prevede?

In generale, le previsioni presenti nella NADEF prospettano uno scenario di crescita dell’economia italiana e di graduale riduzione del deficit e del debito pubblico. 

L’intonazione della politica di bilancio rimane espansiva nei prossimi due anni e poi diventa gradualmente più focalizzata sulla riduzione del rapporto debito/PIL. Se si pensa che attualmente si sta attraversando il più complesso ed articolato periodo della storia recente, una vera e propria sfida che si pone l’attuale Governo è la completa realizzazione del PNRR nei prossimi anni. Rispetto alle previsioni del DEF, infatti, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo inverte la sua rotta e, invece di salire, scende dal 155,6 % al 153,5 %.

La legge di bilancio definitiva che sarà presentata – come di solito accade – verso la fine dell’anno, punta a una crescita equa, sostenibile e duratura, a tassi di crescita più alti di quelli precedenti la pandemia, i quali erano veramente molto bassi ed erano alla base della crisi continua dell’economia.

L’obiettivo è il raggiungimento del livello di PIL trimestrale pre-crisi entro la metà del prossimo anno. Dopodiché si punta a una crescita, anche dell’occupazione, “nettamente al di sopra dei ritmi registrati nell’ultimo decennio”, come affermato in conferenza stampa.

Novità e aggiustamenti

Un’altra notizia positiva per gli italiani sta nel fatto che stanno aumentando gli investimenti nei confronti del bel Paese. Draghi ha sottolineato che, dopo il calo del 9,2% nel 2020, si prevede per gli investimenti un aumento di circa il 15% per il 2021 e di oltre il 6% per il 2022.  “Un rimbalzo – ha detto il premier – che recupera tutto ciò che è stato perso lo scorso anno e anche più”.

Inoltre, il Governo cerca di rassicurare gli investitori internazionali facendo leva sul fatto che è riuscito a mantenere tutte le promesse fatte e a rispettare tutti i suoi appuntamenti sull’esecuzione dell’accordo con la Commissione europea sul PNRR. Tutto ciò ha permesso all’Italia di acquisire credibilità agli occhi dei finanziatori e l’esecutivo guidato da Draghi ha tutta l’intenzione di sfruttare al meglio questa opportunità.

Fra i corridoi di Palazzo Chigi si sta parlando ultimamente anche di Decreto Bollette e di riforma fiscale. Ma se il primo è stato già approvato dal Consiglio dei Ministri – manca solo l’ufficializzazione da parte del Parlamento – la seconda è ancora un’idea svolazzante tra le scrivanie governative. Non c’è ancora nulla di certo sulla portata della riforma, né tantomeno su un quadro completo delle eventuali novità che arriveranno sull’IRPEF, sul cuneo fiscale, sull’IRAP e sui diversi bonus. 

Il testo è ancora tutto da scrivere, ma – purtroppo – i fondi attualmente a disposizione non lasciano spazio a molti margini di manovra. Ad oggi, le risorse ammontano a 2-3 miliardi di euro per il 2022 e il 2023: ogni bonus, esenzione o agevolazione rappresenta una scelta politica, quindi, il Governo è chiamato ad affrontare questa nuova sfida e cercare di alleggerire il carico fiscale per gran parte delle famiglie italiane operando scelte abbastanza ponderate.

A prescindere da cosa deciderà di fare l’esecutivo, ciò che interessa primariamente è la stabilità economica del Paese. Sembra che si stia realmente procedendo con cautela – e a piccoli passi – per assicurare un futuro florido per l’Italia, perciò dare priorità all’economia e all’attuazione finanziaria del PNRR sembra scontato, ma non lo è. 

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Silvia Foti

Nata a Reggio Calabria nel 1999, è una grande appassionata delle tematiche relative all’economia e alla finanza. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Governo, Amministrazione e Politica presso l’università LUISS Guido Carli. Ha svolto varie attività di volontariato nel corso degli anni e nell’estate 2019 ha potuto prendere parte a un progetto di volontariato svolto in collaborazione con Croce Rossa Italiana. Tra le sue varie passioni anche l’arte, le lingue straniere e il nuoto. View more articles

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