L’AFGHANISTAN DISERTATO A METÀ TRA SAIGON E FAHRENHEIT 451
Osservando quell’ultimo, suggestivo elicottero prendere quota dal giardino di un’ambasciata deserta, il paragone tra Kabul e Saigon diviene, ad un tratto, la più logica e legittima delle associazioni mentali. Ma in quanto a parallelismi storici, al netto della comune durata ventennale dei conflitti, la ritirata dal Vietnam sarebbe un accostamento fin troppo nobilitante per la conclusione della parentesi Afghana: non fosse altro perché l’ultimo aeromobile americano a sorvolare l’Indocina, nel ’75, abbandonava la Landing Zone a ben 2 anni di distanza dal ritiro effettivo delle truppe… il Chinook che porta in salvo il personale americano lontano dalle grinfie dei Talebani da poco insediatisi al governo, invece, accende i motori solo due settimane dopo l’inizio della débacle. A occhio e croce, siamo un pizzico più in basso della stima iniziale di un anno e mezzo di resistenza: evidentemente i prezzi della resilienza sono lievitati ben sopra gli 83 miliardi.
Cinque chilometri e mezzo più a nord degli uffici diplomatici, in asse, si raggiunge il perimetro dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai: palcoscenico, quest’ultimo, di disgrazie che non trovano corrispettivo nella disavventura del Vietnam. 150 feriti, 90 morti (quelli accertati) e 13 servicepersons statunitensi giacciono vittime della codardia bombarola jihadista, dell’omertosa complicità talebana e della frettolosa e raffazzonata strategia di ripiegamento adottata dagli americani stessi, dimentichi delle previsioni che l’intelligence aveva rese pubbliche con due giorni d’anticipo (ma già fatte circolare nei corridoi dei palazzi di Washington chissà quanto tempo prima). Dinamica che, vuoi per fazioso antagonismo politico, vuoi per sincera ricerca della verità, ha spinto il Congressman Repubblicano Dan Crenshaw ad appellarsi al Military Whistleblower Protection Act per ricevere insight direttamente da dentro le mura del DOD, nella speranza che, come da titolo della legge, qualcuno si esponga e “spifferi” un paio di dettagli altrimenti relegati al confidenziale.
A stupire ancor meno, invece, è la celerità con cui il Presidente Biden ha provveduto a vendicare i suoi 13 militari K.I.A., denominando, rintracciando e infine bombardando due presunti ideatori di attacchi dinamitardi nel giro di sole 48 ore dal momento della strage. Due esponenti dell’ISIS-K, due menti a suo dire perfide e sadiche, armate di un’autobomba e disposte a macchiarsi del sangue dei loro stessi concittadini così degradati a vittime di una decimazione esemplare… ma a cui, stranamente, il portavoce del DOD John Kirby non era intenzionato ad assegnare pubblicamente né un nome, né un volto: bersagli di una rappresaglia così veloce e di una damnatio memoriae così categorica che quasi ricordano la morte di un “facente funzione di Montag” nelle pagine conclusive di Fahrenheit 451. Dando la parola a Bradbury:
È un trucco […] Sanno di non poter tenere il pubblico in sospeso ancora per molto. Lo spettacolo deve avere una conclusione sensazionale, rapidissima. […] Così adesso stanno cercando una via d’uscita che concluda le ricerche in modo soddisfacente […] Fra cinque minuti, il criminale Montag sarà stato catturato […] proprio in fonda a quella strada, c’è la vittima designata.
15 giorni più tardi, non a caso, si è scoperto, da un’analisi dei filmati dell’attacco rimbalzata sul NY Times, che nell’esplosione della vettura colpita dal vettore americano, in un airstrike tutt’altro che chirurgico (e “senza vittime collaterali”, come assicurato dal generale di divisione William Taylor), sarebbero invece rimasti uccisi 10 civili e nessun terrorista. Che a concludere il lavoro sia proprio il “segugio meccanico” descritto da Bradbury ma nelle forme di un drone Reaper MQ-9, ci rivela drammaticamente quanto la distopia fantascientifica di ieri si sia ormai concretizzata nella realtà – da incubo – di oggi.
SCENARI A CONFRONTO: IRAQ, LIBIA E SIRIA
Per garantire una dimensione empirica all’analisi critica e prescrittiva che segue, definiamo anzitutto tre quesiti: “cosa non si doveva fare?”, “cosa sarebbe meglio non fare?” e “cosa si poteva fare?”. Ora, associamo ad ognuno di questi un caso studio: rispettivamente, Mosul, Raqqa e Sirte, quali termini di paragone per Kabul e Kandahar. Andiamo per ordine.
Cosa non si doveva fare?
Sicuramente, affidamento sulle forze regolari. Non bastano le buone fondamenta dei numeri e, talvolta, nemmeno degli armamenti e dell’addestramento per fare di un miliziano un soldato, se non si possiede la malta dello spirito di corpo e di un salario regolarmente erogato. Questo insieme di mancanze, infatti, si è tradotto, in brevissimo tempo, in un totale annullamento della superiorità quantitativa e qualitativa maturata sotto l’egida dell’occupazione occidentale. A poco è servito un rapporto effettivi di 5 a 1 (i 350K delle forze governative contro gli stimati 75K dei Talebani), vantaggio ben presto ridimensionato da diserzioni, corruzione dilagante nel corpo ufficiali e mancata distribuzione degli stipendi e del rancio in alcuni dei più remoti avamposti dei 200 costruiti dai Collaboratori. Cosa ci ricorda?
Riavvolgiamo l’orologio al 2014, a quando l’ISIS non aveva ancora proclamato il Califfato. Il 6 giugno, con un vero e proprio attacco lampo, i jihadisti del Da’esh entrarono a Mossul sparando più colpi in aria che agli ostili: al netto di un rapporto effettivi di 15 a 1 in favore degli iracheni, entro la notte del quarto giorno di scontri, tutta la città era già caduta nelle mani dei terroristi islamici. I disertori avevano così sublimato un decennio di investimenti militari (pari a 14 miliardi di dollari) in un sostanzioso regalo per il nascituro Stato Islamico, che prese possesso di tutti gli armamenti abbandonati nella provincia di Anbar: 2.300 Humvee, 40 Carri Abrams, 52 pezzi di artiglieria mobile (obici) e almeno 74.000 mitragliatrici leggere; un involontario investimento pari a 656,4 milioni di dollari, cui si aggiunse la liquidità rinvenuta direttamente sul posto (altri 429 milioni di dollari in valuta estera e oro).
Cosa sarebbe meglio non fare?
Una proxy-war. Si discute, in queste ore, di un ritorno all’isolazionismo attivo, ingerente ma mediato, nella speranza di ravvivare il fuoco della resistenza ritiratasi nel Panshir. Cosa ci ricorda? Spostandoci dall’Iraq al Levante – e cimentandoci in spinosi parallelismi con l’operazione Inherent Resolve -, è la memoria di Raqqa a venirci in aiuto. Il capoluogo siriano, strappato al presidente Assad dall’opposizione delle Syrian Democratic Forces, è il perfetto esempio di quale grado di stabilità possa mai garantire un governo disomogeneo di mercenari foraggiati da forze esogene. Asportando surrettiziamente il fattore interveniente della Russia filo-Assad (che riservava alle SDF almeno tanta ostilità quanta ne rivolgeva all’ISIL), Raqqa cadde preda della balcanizzazione interna alle fazioni miliziane, ancor prima che dell’avanzata del Da’esh. Il mancato coordinamento delle forze sul campo si tradusse in una rete di difesa sconnessa e allentata: intere porzioni del territorio furono lasciate impunemente scoperte, sovraesposte a saccheggi rapimenti ed incursioni, e portarono all’unico risultato di un conflitto protrattosi per quattro lunghi anni… e infine risolto attraverso i più diretti e convenzionali bombardamenti aerei.
Le guerre proxy non sono, per così dire, un investimento sicuro nel lungo periodo, anzi: spesso e volentieri finiscono per sortire l’effetto opposto a quello desiderato, saturando di materiali e risorse quegli stessi schieramenti deboli poi destinati alla ritirata, e che lasceranno il proprio bottino logistico nelle mani del nemico. Si potrebbe affermare, in tal senso, che gli americani abbiano già incominciato la loro proxy-war nell’esatto momento in cui non hanno provveduto a sabotare e distruggere gli armamenti in dotazione all’esercito afghano prima di abbandonare il campo. Si ritiene, infatti, che i Talebani siano riusciti a impadronirsi di una porzione sostanziosa dell’investimento statunitense originariamente destinato alle forze governative (pari a 28 miliardi di dollari): almeno 2.000 degli originari 75.000 mezzi pesanti, almeno 40 degli originari 200 velivoli, più un quantitativo imprecisato delle originarie 600K armi da fuoco, dei 16K strumenti (PVS e ScanEagle su tutti) e delle svariate mazzette di dollari.
Cosa si poteva fare?
Applicare la grande strategia “diplomatica” adottata dal Cairo nello scenario libico, ad esempio. Volendo così proporre un confronto tra l’asse Tripoli-Tobruk e quello Herat-Kabul, l’opzione geostrategica più facilmente percorribile era quella di disegnare una linea rossa in una delle località mediane. Kandahar (o, in un secondo momento, Mazar-i-Sharif) sarebbe dovuta diventare la Sirte dell’Afghanistan, e gli Stati Uniti un equivalente funzionale dell’Egitto che impedisse all’invasore turco – nella variante afghana, i Talebani – di avanzare in direzione della capitale… pena una rappresaglia che avrebbe riportato la situazione al precedente equilibrio. Insomma, Give war a(nother) chance, parafrasando Luttwak (Foreign Affairs, 1999).
Ci tratteniamo dall’entrare in una disamina più tecnica e prettamente militare della questione, rinviando però alla Open Letter from Retired Generals and Admirals indirizzata a Washington, che trovate al seguente link:
QUALE FUTURO PER I DIRITTI E LE LIBERTÀ?
Il positivismo liberale ha fallito: questo non è materia di discussione. Quando le società crollano e gli imperi del male si riorganizzano, il dialogo tra opposti morali diventa inevitabile. Gli americani dovranno tornare a parlare di futuro con le menti e le voci schiave del peggior passato. Le donne torneranno a vestire indumenti più simili a una tovaglia, non avendo di fatto più diritti di un pezzo di mobilio, e gli oppositori politici ad oscillare da un qualche cappio. A tal proposito, il dovere di cronaca ci impone l’onere di un debunk: le immagini e i video che circolano su una presunta forca a mezz’aria, e che raffigurano un uomo impiccato dal lato di un elicottero, sono un falso. Conclusione che la ragion comune avrebbe dovuto raggiungere con maggior celerità, considerato il fatto che nei paesi mediorientali si preferisce sempre legare la corda ad una trave, più larga e meglio perpendicolare… ma soprattutto, nel rapporto costi-benefici, per i Talebani è assai più conveniente limitarsi a terrorizzare la società civile fintantoché non provvederà lei stessa ad evacuare l’area attaccandosi ai carrelli retrattili di un aereo in partenza per l’Europa.
E rimanendo in tema di voli, prima di abbandonare la baracca si era quantomeno provveduto a smantellare la strumentazione tecnica dell’aeroporto di Kabul. Quest’ultima è stata però prontamente ripristinata da un’equipe specializzata del Qatar. Per quale ragione? Semplice: perché i Talebani intendono istituzionalizzare una linea diretta Kabul-Doha per la rapida evacuazione di tutto il personale filoamericano autoctono altrimenti destinato al patibolo. Ma non lasciatevi ingannare dall’apparente benevolenza fondamentalista. L’operazione di salvataggio, tutt’altro che spontanea e disinteressata, non è che un pegno per l’amnistia del leader Talebano Haqqani, capo della maggioranza più integralista nella giunta di Kabul, estremo opposto del moderato Baradar: 200 vite a viaggio, in cambio del depennamento del suo nome dalla lista nera dell’FBI.
La domanda finale è, dunque: da che parte si schiererà il liberalismo? Concederà legittimità ad un criminale internazionale nell’interesse di migliaia di innocenti, o terrà il punto contro gli ambasciatori dell’autoritarismo a costo di condannare a morte i suoi stessi alleati? Il club dei realisti osserva con estremo interesse.
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Riccardo Italo Scano

“Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.”. View more articles
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