La complessa “questione Afghanistan” ha, di recente, assunto un ruolo di assoluto primo piano nel panorama mediatico internazionale. Al ritiro delle truppe della coalizione guidata dagli USA ha corrisposto la meteorica ascesa dei talebani, i quali nell’arco di poche settimane sono passati dal progettare piccoli attacchi nelle zone rurali del Paese, al governarlo dal palazzo presidenziale di Kabul.
I “protagonisti” dell’intera vicenda, per lo meno nell’ambito dei media occidentali, sono stati proprio l’esercito americano ed il suo comandante in capo, il Presidente Joe Biden, e di conseguenza poche parole sono state spese sugli altri membri della coalizione. Vale, tuttavia, la pena soffermarsi sull’esperienza del contingente britannico in Afghanistan, il secondo più numeroso e il primo a schierarsi a fianco dei soldati statunitensi 20 anni fa.
All’indomani degli attacchi dell’11 Settembre, l’allora Primo Ministro Tony Blair sorprese alleati e oppositori schierandosi inequivocabilmente a favore dell’intervento in Afghanistan (e successivamente di quello in Iraq) e presentandosi come un fedele sostenitore della “Relazione Speciale” tra USA e Regno Unito. Le critiche, soprattutto in seno al partito laburista di cui Blair era l’indiscusso astro nascente, non tardarono ad arrivare: il Primo Ministro fu accusato di sostenere la politica neoimperialista di Bush, e di promuovere idee controverse come la esportazione della democrazia. I cartoonist inglesi presto iniziarono a rappresentarlo come il fedele animale domestico del Presidente americano, pronto a seguire il suo padrone senza chiedere spiegazioni.
Proprio questa risoluta, incrollabile fermezza appare tanto più sorprendente se si considera che l’esercito di Sua Maestà era già stato impegnato in Afghanistan in passato, e ne era già uscito sconfitto. Le motivazioni di questo conflitto, tuttavia, erano ben diverse da quelle che spinsero Bush ad agire nel 2001, e affondano le loro radici nella storia imperiale Britannica. Nel corso dell’800, infatti, le vaste terre dell’Asia centrale, e l’Afganistan specialmente, avevano assunto un’importanza cruciale per il governo di Londra. Quest’ultimo riteneva (a torto o a ragione) che l’Impero Russo avesse intenzione di espandersi verso sud, arrivando a minacciare i preziosissimi possedimenti inglesi in India.
Nonostante la difficoltà nello stabilire oggi quanto fondate fossero queste paure, è certo che le élite britanniche dell’epoca considerassero un’invasione russa dell’India una realtà possibile ed estremamente preoccupante. Pertanto, dedicarono risorse e uomini a quello che è poi stato ribattezzato “The Great Game”, o “il grande gioco”: una danza di agenti segreti, mercanti, soldati e spie, che tessevano le loro trame tra i passi e i deserti dell’Asia Centrale. Questi uomini, spesso grandi conoscitori delle lingue e delle tradizioni del luogo, stringevano alleanze con vari capi tribali, controllavano l’accesso a vie carovaniere e insediamenti strategici, e cercavano di ostacolare le fazioni nemiche in ogni modo.
A testimonianza dell’importanza, nell’immaginario collettivo, di questo singolare periodo storico, basti citare due prestigiosi autori: Rudyard Kipling, premio Nobel e caposaldo della letteratura inglese, trasse ispirazione proprio dalle vite avventurose dei protagonisti del Grande Gioco per dare vita a Kim, il protagonista dell’omonimo romanzo, tratteggiando in maniera magistrale il ritratto di un giovane e brillante ragazzo anglo-indiano, abile nel destreggiarsi tra mille colorati personaggi e in grado di trascendere la linea tra colonizzatore e “colonizzato”. Il romanzo fu da molti considerato il capolavoro di Kipling, e continua tutt’oggi ad affascinare e conquistare generazioni di lettori.
Per chi fosse interessato a una prospettiva più prettamente storica, invece, sono i libri di Peter Hopkirk ad essere di inestimabile valore. La monografia dedicata al Grande Gioco ripercorre gli eventi salienti di questo periodo e mette in risalto le figure storiche che hanno contribuito in maniera determinante, mentre altri suoi scritti – come quelli dedicati alla Via della Seta o al regno Tibetano – esplorano in dettaglio aspetti solamente accennati nell’opera principale. Ciò che emerge da tutto ciò è un arazzo storico-politico impressionante, ricchissimo di intrecci e trame nascoste, nel quale il “domestico” e l’internazionale sono indissolubilmente legati e si influenzano l’un altro.
L’Afghanistan, in particolare, è teatro di innumerevoli conflitti, invasioni e accordi di pace, troppi per essere enumerati. Le spie inglesi di volta in volta sostengono o osteggiano un particolare governante, richiedono un intervento armato, fomentano rivolte o cercano di giungere ad una tregua. Tutti questi sforzi sono volti a mantenere un governo fantoccio a Kabul e a creare uno “stato cuscinetto” tra l’India e il potenziale invasore russo.
Determinante in questo contesto è dunque la creazione della “linea Durand”, che andrà a divenire il confine tra i possedimenti inglesi propriamente detti (odierno Pakistan), e lo stato semi-indipendente afghano. Dopo circa 40 anni di pace – tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo – fu l’esercito afghano a rompere la tregua, oltrepassando proprio la linea Durand e invadendo l’India Britannica attraverso il Passo Khyber, dando così inizio alla terza guerra anglo-afghana, che si concluse nell’agosto del 1919 con la firma del Trattato di Rawalpindi.
Il trattato ha una duplice lettura. Se da un lato, infatti, può essere considerato un successo per il Regno Unito (gli afghani, respinti ed espulsi dal Pakistan, accettarono la linea Durand come confine ufficiale e promisero di non violare più l’integrità dei domini coloniali Britannici), ad un’analisi più attenta non lo si può che interpretare come una vittoria pirrica: l’Emiro Amanullah Khan riuscì infatti ad assicurarsi la promessa di non-interferenza da parte di Londra e poté pertanto dichiarare la nascita di uno stato Afghano realmente sovrano e indipendente.
I britannici, dunque, già un secolo fa si videro costretti ad abbandonare l’Afghanistan, rinunciando ad ulteriori tentativi di conquista. A fungere da palliativo per questa ritirata furono probabilmente le notizie in arrivo dalla Russia: il caos della guerra civile rendeva ridicola qualsivoglia velleità nei confronti dell’India coloniale, e l’Afghanistan diveniva quindi meno cruciale per gli interessi e le strategie inglesi.
Nel 1919, infatti, nessuno degli ufficiali e dei politici del Regno Unito avrebbe potuto immaginare che solo 60 anni più tardi l’Armata Rossa avrebbe in effetti invaso l’Afghanistan. Le motivazioni che spinsero il Segretario Generale sovietico Leonid Breznev e gli altri membri del Politburo (l’ufficio politico del comitato centrale del partito comunista) ad avallare questo intervento non erano, ad onor del vero, legate al conquistare l’ormai defunto impero britannico, e meriterebbero di essere trattate altrove, ma ai fini di questo breve excursus storico è esclusivamente l’esito ad essere rilevante. Nell’arco di un decennio, infatti, anche i sovietici dovettero abbandonare l’Afghanistan, e il regime da loro supportato non tardò a capitolare di fronte all’avanzata dei guerriglieri mujahiddin.
In un ultimo colpo di scena ricco di amara ironia, è importante notare che i mujahiddin furono almeno in parte sostenuti dagli agenti della CIA, per alcuni versi gli eredi dei partecipanti al Grande Gioco, chiudendo così idealmente il cerchio che ci riporta all’11 Settembre, all’invasione Americana e alla vittoria dei Talebani.
Svariati film, libri e articoli hanno, nel corso del tempo, popolarizzato l’espressione “cimitero degli elefanti”, volta ad indicare un luogo mitico verso il quale gli elefanti più anziani si dirigerebbero per passare a miglior vita. Con una metafora pittoresca, e alla luce delle esperienze britanniche, sovietiche e americane, si potrebbe quindi definire l’Afghanistan come il “cimitero degli elefanti” dei grandi imperi. Mai come in questo caso, per vecchi e nuovi aspiranti al titolo di egemone (regionale o addirittura globale) la storia offre insegnamenti imprescindibili.
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Luca Venga

Nato a Rieti nel 1999, da sempre si interessa di storia, geopolitica e relazioni internazionali. Dopo aver vissuto negli Stati Uniti e in Germania, dove consegue l’International Baccalaureate Diploma, si trasferisce a Manchester per frequentare il corso di laurea triennale in Politics and International Relations presso la University of Manchester (ottenendo il Leadership Award per l’anno accademico 2020/21). Affascinato da lingue e culture diverse, ama leggere e viaggiare, dedicandosi ad esperienze di volontariato quali il Tanzania Project e il Community Mapping Project Uganda. View more articles.
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