L’attrito generatosi tra la Conferenza Episcopale e il fronte per la difesa dei diritti LGBTQ+, che trova il suo casus belli nella possibilità di tradurre in legge l’attuale stesura del DDL Zan, offre preziosissimi spunti per una riflessione storica sulla – mancata – laicità dello Stato italiano. Nel tentativo di ricomporne una parabola evolutiva attraverso i secoli, saltuaria quanto basta perché la si possa racchiudere nello spazio di un articolo di giornale, ci si accorge di quanto importante sia ripercorrere gli snodi principali della storia moderna e contemporanea dello Stato Vaticano, rintracciando ed enucleando quei momenti salienti (giuridici e politici) che ancora oggi garantiscono alla Santa Sede un sostanzioso potere di ingerenza spirituale negli affari – evidentemente mai abbastanza secolari – della Repubblica.
PREMESSE
Si è soliti discutere – in tempi di sedicente “Terza Repubblica” soprattutto – della modernità in termini post-ideologici. È innegabile, in tal senso, che il collante valoriale che un tempo saldava i partiti di massa alle rispettive classi popolari si sia progressivamente sfaldato, fino a ridurre il panorama elettorale ad un insieme scomposto di identità friabili e cinicamente inclini alle più fantasiose fusioni e ai più logici sgretolamenti. In tempi di così marcata inconsistenza e incoerenza politica, dove perfino i più generici contenitori di “destra” e “sinistra” si tramutano in categorie prive di tassonomie stabili (attribuibili a tutti e nessuno contemporaneamente), i cittadini del mondo libero si sono trovati costretti a sopperire autonomamente alla carenza di rappresentanza: i diritti degli individui hanno ben presto dovuto condividere gli ordini del giorno con la tutela dei diritti di nuove e più marginali aggregazioni. Queste ultime istanze, apparentemente sovrapponibili a quelle già espresse dalle olistiche classi sociali o dalle ancor più trasversali comunità religiose, sono figlie di un tempo certamente post-materialista ma non meno polarizzato del passato: la continua palingenesi di raggruppamenti e rispettive identità ha come raddoppiato le dimensioni dello spettro politico, redistribuendo le opinioni del pubblico su di un piano senza margini o griglie, piuttosto che un asse bidirezionale. Con interessanti risvolti di “denazionalizzazione”, per dirla con le grammatiche di Huntington, la modernità scambia i bipolarismi ideologici o i tripolarismi partitici con un pluralismo di gruppi sociali internazionalizzati, radicali e svincolati dalle sovrastrutture istituzionali, alle quali non resta che un ruolo postumo di integrazione (anziché di aggregazione). Privati della controparte “statale”, ossia di una componente elettorale davvero in grado di rappresentarli, queste realtà puramente civili, per quanto contaminate da dirigenze non altrettanto spontanee (cinghie di trasmissione di partiti e parti che intendono capitalizzarne i disagi), non hanno altra arma all’infuori della solidarietà e dell’emotività che questa produce.
L’analisi che il seguente articolo si prefigge di condurre tocca, inevitabilmente, le corde di quella citata emotività e si appella, in apertura, alla razionalità del lettore perché non si conceda la comodità di un argomentum ad hominem: chi scrive nutre inamovibili convincimenti su alcune delle questioni che si tratteranno di seguito, ma non intende sporcare l’esposizione con eccessi di faziosità o commenti poco imparziali, anzi spera di restituire un quadro quanto più chiaro della storia di due nazioni che hanno finto, per tempo immemore, di nutrire interessi tra loro compatibili in forza della mera contiguità territoriale.
I PATTI GASPARRI E LA SECONDA MORTE DI NINO BIXIO
Perché questo articolo possa legittimamente aspirare a comparire nell’archivio di una rubrica di politica estera, è necessario che la parabola di cui sopra princìpi in un punto della storia in cui Italia e Chiesa potessero già relazionarsi nelle vesti di Stati sovrani e distinti. Correva l’anno 1870 e Nino Bixio, prima da senatore del Regno e poi da Generale del Regio Esercito, ci indicava testardo (in questo più affine al commilitone Garibaldi che al collega di seggio Camillo Benso) la miglior strada per la costituzione di nuovi rapporti diplomatici con lo Stato Pontificio… una via scoscesa e ad alcuni non troppo gradita, visto che passava per una – non proprio diplomatica – seconda breccia a Porta San Pancrazio. La questione romana fu per Bixio ciò che l’unità fu per il conte di Cavour: il culmine di una lotta esasperata verso il sogno di un’Italia finalmente redenta. Fa riflettere come le due figure siano accomunate, al di là dei pensieri e delle aspirazioni, dall’assonanza di una morte prematura di poco successiva al compimento della rispettiva impresa, quasi a sancire l’esaurimento delle loro funzioni e del loro sacrificio per la causa della neonata nazione.
Un retaggio risorgimentale – e come tale romantico – barbaramente calpestato dal cinismo utilitarista di Mussolini, che fece carta straccia delle Guarentigie e optò per il ripristino dell’indipendenza Vaticana, sperando così di ricavare una legittimità morale da affiancare a quella politico-coercitiva già sancita per mezzo di “listoni”, leggi speciali e olio di ricino: i Patti Gasparri sono, in tutto e per tutto, la seconda morte del sopraccitato statista genovese. Nello spazio dei tre accordi stipulati nel ’29, il Fascismo rinnega spudoratamente sessant’anni di storia e conquiste nazionali. Se il riconoscimento da parte dello Stato “alla Santa Sede [del]la piena proprietà e [del]la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano” non fosse già abbastanza rappresentativo della rottura legale con la parentesi liberale del Regno, i riferimenti temporali contenuti nel testo dell’articolo 2 della Convenzione finanziaria (integrativo del precedente articolo 1, in cui è disposto l’esborso di una riparazione pari ad un miliardo e settecentocinquanta milioni di lire) lasciano ben poco spazio all’interpretazione:
La Santa Sede dichiara di accettare quanto sopra a definitiva sistemazione dei suoi rapporti finanziari con l’Italia in dipendenza degli avvenimenti del 1870.
Una stringa di testo e un numero a dieci cifre bastarono a degradare l’Unità d’Italia a debito di guerra. Di questo complesso di leggi, meglio noto col nome di Patti Lateranensi, è altresì importante memorizzare le disposizioni contenute agli articoli 1 del Trattato e 36 del Concordato, la cui sopravvivenza nell’ordinamento, prolungatasi anacronisticamente per ben quarant’anni di storia repubblicana, costituisce un ineludibile indicatore di quanto effettivamente “laico” potesse dirsi il nostro Stato nel secondo dopoguerra.
LA PEGGIOR CONTINUITÀ REPUBBLICANA: DALL’ARTICOLO 7 ALL’8‰
Checché ne dicano luminari del diritto e seguaci dei padri costituenti democristiani, l’Italia è un paese laico solo per norma e non per disposizione. Il combinato disposto degli articoli 7 e 8 della “Costituzione più bella del mondo” restituisce l’immagine di una nazione inopinabilmente schiava di quello che Benedetto Croce (unico dei laici liberali ad astenersi dal voto in Costituente sull’iscrizione dei Patti Lateranensi tra i princìpi fondamentali della Repubblica) definì propriamente il “giogo pretesco”. Si cominci col ricordare che la laicità dello Stato, spesso millantata quale assioma puro e consolidato della legge fondamentale, è di fatto sancita come principio indiretto, cioè come interpretazione ricavabile dal comma 1 dell’articolo 8, in cui è dichiarata l’uguaglianza di tutti i credi religiosi in termini di semplice libertà: quanto alla gerarchia – perché esiste una gerarchia –, basterà proseguire al paragrafo immediatamente successivo per scoprire che “le confessioni diverse dalla cattolica” (scelta sintattica interessante per uno Stato laico) possono interagire con la Repubblica per voce delle rispettive rappresentanze e consolidare i rapporti sulla base di intese. Il Concordato rimane, appunto, forma di accordo esclusiva di quell’unica religione che non necessita di organizzarsi secondo statuti comunitari, giacché rappresentata da uno Stato sovrano e confessionale.
E fa peraltro specie che suddetto assunto di laicità – ammesso e non concesso che la disposizione in questione abbia mai inteso di farne principio – venga collocato dopo e non prima del famigerato articolo 7. Articolo, quest’ultimo, che non manca di consegnarci la sua dose di subdole sfumature: il rinvio formale (e non recettizio) fatto ai Patti Gasparri è esplicito. Nel dichiarare la continuità tra Repubblica e Monarchia nei rapporti Stato-Chiesa non si ricorre, cioè, ad una formula generica per la notificazione di successione del concordato vigente, bensì si cristallizza la relazione Italia-Vaticano nelle forme dei soli Patti Lateranensi. Con questo non si vuole insinuare la non emendabilità dei Patti (che è anzi sancita al comma 2), quanto affermare l’impossibilità di abrogarli, eventualmente, in favore di nuove e più trasformative convenzioni: i Patti Lateranensi sono in ogni momento suscettibili di modifica (e peraltro senza nemmeno bisogno di ricorrere alle lungaggini del procedimento di revisione costituzionale), ma in nessun modo sostituibili tout court.
Di questo simpatico retaggio fascista si rendano grazie ai migliori volti della resistenza italiana, come il noto camerata Dossetti rinsavito all’antifascismo a ridosso dell’armistizio, giusto in tempo per figurare tra i membri fondatori della principale componente del CLN: la Democrazia Cristiana. Ma gli scudocrociati non raggiunsero certo da soli la maggioranza assoluta nella Costituente: tra le componenti dell’Assemblea più inaspettatamente convergenti sulle posizioni filocattoliche, come non citare i comunisti. In molti, ancora oggi, si interrogano sul famoso ed improvviso voltafaccia dei tribuni proletari sull’articolo 7, e altrettanti diedero per buona la lettura secondo cui Togliatti intendesse così porre le basi per una più lunga e sicura permanenza dei rossi nell’area di governabilità a trazione democristiana (visione poi venuta meno a metà della primissima fase repubblicana, nella transizione dal De Gasperi III al De Gasperi IV). È opinione di chi scrive, contrariamente alle interpretazioni più gettonate, che i calcoli del filosovietico fondatore di Ordine Nuovo fossero tutt’altro che errati e che l’obiettivo sperato – non proprio manifesto – fosse invece stato raggiunto, onorando la memoria dell’ex collega di redazione (nonché teorico elitista) Antonio Gramsci: al netto dei conflitti di coalizione che ancor prima della rottura del governo d’unità nazionale costarono a Togliatti il dicastero delle Finanze – ministero che dovrebbe essere l’assoluta priorità per un partito che si prefigge il mandato ideologico di riconsegnare i mezzi di produzione ad operai e contadini –, solo la carica del Guardasigilli rimase costante nelle pertinenze dei comunisti. Un interesse peculiare, ulteriormente rivelato dagli interventi di Laconi (nella seduta dell’8 gennaio del ’47) alla Costituente per la stesura dell’articolo 104: il delegato comunista auspicava, infatti, una commistione del terzo potere coi primi due, dando per surreale l’ipotesi della piena indipendenza della Magistratura non come ordine, ma come insieme di individui sempre e comunque esposti agli stimoli politici di una democrazia libera e plurale… previsione che, ahinoi, si conserva bene nel tempo, soprattutto quando la cronaca si colora di inchieste sulle “magagne” in seno al CSM.
Quarant’anni più tardi, infine, i socialisti di Craxi si degnarono di correggere il Concordato, elidendo i già citati articolo 1 del Trattato e 36 del Concordato (rispettivamente “Cattolicesimo religione di Stato” e “Obbligatorietà dell’insegnamento della dottrina Cristiana nelle scuole pubbliche elementari”)… al modico prezzo dell’8xmille, per sommo gaudio dello IOR. Emendamento bene accetto ma, di nuovo, fin troppo tardivo oltre che compromissorio: per quella repubblica che si definisca laica (se non per legge, quantomeno per indirizzo), un trattato internazionale che sancisca l’effettività di una religione di Stato non è certamente la pratica più indicata.
L’INGERENZA OGGI, TRA DRAGHI E ZAN
Quanto fin qui osservato per dire che: “sì, l’Italia è uno Stato laico… se vogliamo che lo sia”. La dicotomia Chiesa-LGBTQ è un calderone di riflessioni giuridiche estremamente stimolanti, prima fra tutti la questione di costituzionalità sollevata dalla CEI: le perplessità dei Vescovi circa la libertà di poter definire contronatura le declinazioni non convenzionali della sessualità sono un dilemma per alcuni individui in quanto cristiani, ma le modalità di risoluzione dell’eventuale antinomia tra Patti e DDL Zan sono interesse comune alla cittadinanza tutta. Sebbene Draghi abbia un passato nelle schiere democristiane come direttore generale del Tesoro nei governi Andreotti VI e Andreotti VII, potrebbe davvero rivelarsi “l’uomo giusto al momento giusto” per accompagnare la nazione in una transizione spirituale necessaria (e le sue dichiarazioni in tal senso lasciano ben presagire), rompendo per primo il muro del falso mito della non emendabilità dei primi dodici articoli della Costituzione. Da nessuna parte è infatti sancita la natura intangibile dei principi fondamentali (prerogativa, piuttosto, dell’articolo 139), ivi compresi i Patti Lateranensi: tutt’al più è indicata la loro indefettibilità come “fondamento”, appunto, dell’attuale iterazione della Repubblica… i francesi lo hanno già fatto quattro volte, mentre da questo lato delle Alpi si è ancora fermi a una differenziazione informale (di matrice giornalistica) tra la Prima e la c.d. Seconda Repubblica, mai propriamente distinte da alcuna riforma dell’assetto organizzativo dello Stato.
Certo è che l’eventuale risoluzione del paradosso costituzionale evidenziato dalla Conferenza Episcopale non toccherebbe né scioglierebbe i nodi giuridici d’interesse per gli sguardi più attenti. Il DDL Zan presenta, nelle sue forme attuali, due criticità (completamente dissociate da quanto denunciato dai vicari papalini) altamente invalidanti dell’ammissibilità e morale e costituzionale del testo. Nello specifico, il comma 4 dell’articolo 1 definisce l’identità di genere quale identificazione e manifestazione del genere di un individuo a prescindere dalla congruità col sesso e, soprattutto, “indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Ora: se nell’ordinamento italiano vi fossero riferimenti a una qualche definizione di “percorso di transizione” intorno alla quale costruire un minimo di consensus giuridico, non saremmo qui a fare semantica spicciola sui diritti umani. Ma tant’è che in nessuna precedente pubblicazione in Gazzetta si è mai fatto riferimento al suddetto percorso come ad un processo scandito in fasi giuridicamente riconoscibili e scientificamente verificabili (possibilmente tramite consulenza psichiatrica, facendo magari coincidere la prima fase con la certificazione clinica di una condizione di disforia nel paziente), anzi: secondo la valenza comunemente affibbiata alla locuzione, la transizione ha inizio nel momento stesso del coming-out (atto non meno legittimo ma assolutamente individuale, riflessivo e senza alcun risvolto o valenza legale). Inutile dire come questa fondamentale inconsistenza semasiologica apra a scenari di confusione ed ingovernabilità al limite del parossistico.
Segue un dilemma ancor più grave, racchiuso nella condizionale del controverso articolo 4. Sebbene la libera espressione di convincimenti e opinioni sulle questioni oggetto del disegno legislativo sia qui esplicitamente tutelata dalla disposizione in questione, preoccupa la seconda metà del capoverso: tale tutela è infatti assicurata
… purché non idonea a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.
Per quanto sgarbato o indelicato risulti, è indubbio, ad esempio, che una dichiarazione circa la contrarietà dell’omosessualità alla logica di natura non potrebbe in alcun modo pregiudicare la ricezione, da parte degli stessi individui omosessuali, dei diritti garantitigli dallo Stato: se, proseguendo nell’ipotesi, si vedesse un domani riconosciuta la capacità di adozione alle coppie omoerotiche, in nessun modo la pubblica esternazione contrariata di un individuo o di un raggruppamento potrebbe inficiare la piena “fruizione” del diritto accordato. Ma se, diversamente, fosse il cittadino e non lo Stato a ricoprire la posizione di “erogatore” di quel diritto? Se la non-discriminazione fosse, richiamandosi alle evoluzioni giuridiche osservate nel codice penale canadese, quella di non veder storpiata la propria identità di genere nei pronomi o nelle desinenze che ci vengono coerentemente rivolti, e se è dunque l’interlocutore stesso a farsi garante della nostra dignità attraverso le parole che pronuncia o dovrebbe pronunciare? Per quanto nobile sia l’intento, il mezzo per il suo conseguimento (che sarebbe quello di una giurisprudenza orientata al compelled-speech) presenta caratteri al limite della costituzionalità.
Analisi, in conclusione, che ci spinge verso i confini di tutt’altro excursus, passando dall’ingerenza spirituale del papato alla radioattività culturale dell’anglosfera… digressione che, per ovvie ragioni, ci riserviamo di scandagliare in una seconda occasione.
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Riccardo Italo Scano

“Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.”. View more articles
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Mi dispiace doverlo dire, ma nessun giornalista televisivo si è mai preso la briga di spiegare quali sono gli elementi di insolubile contrasto, fra Stato Italiano e Santa Sede, per quanto riguarda il DDL Zan. Tutti mettono in evidenza la divergenza di opinioni, l’ingerenza di uno stato nei confronti dell’altro, ma nessuno spiega, in parole semplici, al cittadino, quali siano questi punti contrastanti e perchè le posizioni sono incompatibili. Fosse solo il male dell’ingerenza di uno stato sugli affari dell’altro, …ma io ho il sospetto che il male sia ancora più grave, perchè distorce e falsa l’informazione che viene veicolata. Il problema diventa quindi quello del tipo di informazione, più che quello della indipendenza di uno stato in termini di legislazione. Se l’informazione giunge distorta, falsata, dirottata, non obiettiva; la società del Grande Fratello di George Orwell è dietro l’angolo. Grazie comunque per l’articolo, che ho trovato molto interessante e accurato.
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