Se esiste una variabile che più di tutte è destinata a perdere nel trade-off del policy-making di ogni grado e respiro, quella è la morale: che si tratti del benevolo programma elettorale, consuntivo di proposte finalizzate a un voto di scambio; che si tratti di fasulle indignazioni propedeutiche ad ingerenze politiche ed escalation militari, talvolta preambolo a poco democratiche esportazioni di democrazia; che si tratti di un occhio chiuso, conservato in attesa di essere riaperto su affari più fruttuosi e convenienti di una coscienza pulita. Dentro e fuori i confini nazionali, la morale non è che l’ancella o la negazione della politica razionale. Questione diversa è comprendere, invece, quale equilibrio tra morale e politica sia sintetizzato nei leader del mondo libero e sedicente liberale. Prendiamo, ad esempio, l’attuale Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica, Mario Draghi. Dove collocare l’ex presidente della BCE sulla bussola del cinismo politico, a fronte del suo breve ma intenso primo bimestrale nelle vesti di capo di governo?
Esistono indubbiamente dei fattori indefettibili della personalità giuridica internazionale italiana cui nessun politico nostrano può sottrarsi nelle sue esternazioni: l’Italia è, per valori e sudditanza, una tessera nell’ampio e variegato mosaico dell’ordine liberale a guida statunitense, nonché alleato (e avamposto) strategico dell’asse Atlantico. Concedendoci un’imprecisa assimilazione tra liberalismo e democrazia, e tra atlantismo e occidentalismo, l’Italia è agli antipodi naturali delle dittature orientali (militari e religiose). Ma la natura non è mai abbastanza a determinare, in autonomia, amici e nemici del gioco: perché prima della morale, si è detto, viene la politica. Indubbiamente è la morale che cristallizza l’Italia nelle sue attuali forme democratiche e occidentali ma, fuori dai confini nazionali, quegli stessi principi non hanno giurisdizione: potrebbero averne esportandosi con fare illiberale (la storia ci è testimone della percorribilità di una tale opzione), ma l’Italia pecca di rachitismo quando si tratta di peso economico e soprattutto militare. Di fronte alla realtà inemendabile dei fatti, cioè l’impossibilità di scalfire il blocco autoritario ad Est, l’Italia (anti-belligerante per risorse e per cultura) apre diplomaticamente ai suoi opposti per dialogare e costruire. E questo è tutt’altro che un demerito, anzi: se tale apertura è pratica comune nella civiltà di riferimento, la morale deve ancor più celermente fare spazio al cinismo… o si rischia di rimanere indietro nelle trattative coi “mostri” più ricchi nell’“Impero del male”.
Certo è che l’Italia è fin troppo aperta ai suoi nemici naturali: la Turchia, per prima, di cui costituisce il principale partner commerciale e — almeno fino a qualche giorno fa — il più risoluto dei sostenitori politici in vista di un prossimo allargamento dell’Europa all’Anatolia (dando per buona l’idea che basti un angolo di Tracia per fare di un ottomano un balcanico). E sarebbe stato bello, prima di improvvisi litigi, vedere tale sostegno ripagato con una più equa “spartizione” della Tripolitania: ma, al contrario, su Misurata sventola bandiera turca e il nostro ultimo avamposto nella regione, l’ospedale civile di fortuna costruito nell’aeroporto della città, viene fatto sloggiare. Non che l’Italia possa sperare nell’appoggio della Casa Bianca in cui, all’isolazionismo trumpista, si è da poco sostituito il crescente disinteresse strategico di Biden (man mano che l’OPEC collassa cedendo il titolo di price-maker al nuovo cartello petrolifero dell’America Latina). Né tantomeno sarebbe intelligente attendere che l’Unione Europea riesca a tener fede al suo nome, sostituendo una politica estera comunitaria ad una politica estera frammentaria: sperare che Parigi smetta di scavalcare Roma nei Summit (sempre che non sia impegnata a spiegare elicotteri abbattuti a Benghazi o a insabbiare missili Javelin allungati sotto banco ad Haftar, per assediare Tripoli) o che la Germania faccia valere il suo peso economico (oltre ai natali turchi di almeno 3 milioni tra i suoi teutonici cittadini), sarebbe come sperare che l’Italia prendesse atto della sua dimensione mediterranea e iniziasse a definire le sue ZEE a suon di bilaterali con i paesi dell’ex-Jugoslavia… bello, ma poco realistico.
Ma tant’è che la Turchia cerca alleati, e l’Italia dovrebbe tentare (con il sopraccitato cinismo) di potenziare i suoi partenariati moralmente scomodi. Questo vale soprattutto quando l’interlocutore all’altro capo del tavolo ha il potere di decidere come e quando aprire il “rubinetto umanitario” di Idlib (rilasciando 4 milioni di rifugiati siriani nella tratta balcanica che arriva proprio nel Triveneto), di definire le sorti del conflitto libico (e quindi della riapertura dei pozzi nella mezzaluna petrolifera di Sirte) e di determinare (in assenza di un’unione doganale) i sovrapprezzi sui trasferimenti delle merci semi-lavorate prodotte dalle catene di elettrodomestici lì delocalizzate. Disertata da Germania e Canada, che si uniscono ai francesi (Beringer Aero) nel sospendere i rifornimenti di motori per i droni Bayraktar TB2, e poi tagliata fuori dal programma F35 per volere degli americani, la Turchia guarda di nuovo a Nord per cercare in Putin quello che ormai Stoltenberg non può più offrire: un’alleanza militare.
In un momento di tale debolezza esterna e interna (l’AKP di Erdogan cede terreno nelle amministrative locali, perdendo Ankara e Istanbul), bisognerebbe tendere la mano e “turarsi il naso”, se l’odore di dittatura disturba. Cosa che, al contrario di quanto i frettolosi titoli delle prime pagine suggeriscono, era nei piani anche di Mario Draghi. Il Presidente del Consiglio non ha infatti descritto con sdegno il leader turco come despota e carnefice (per quanto calzanti le due apposizioni risultino): ha piuttosto dichiarato, parafrasando, che con i dittatori è importante mantenere le distanze nei valori, ma non negli affari. Una pericolosissima svista che costa all’Italia la sospensione dei rapporti diplomatici con la Turchia (accompagnata dall’infantile ripicca del Sultano che pretende di darci lezioni di procedura elettorale), ma non già un sintomo di una sprovveduta passione liberale pronta a far saltare un mercato nel nome della coerenza democratica.
Perché, che ci crediate o no, Mario Draghi non è poi così moralista, nonostante (o a conferma) del suo retaggio democristiano: è anzi un realista, di quelli che si avvalgono del Golden Power per evitare che l’Italia non si trasformi da Bulgaria della Nato ad Angola d’Europa (mangiata dagli investimenti e dalle rilevazioni cinesi) ed è un cinico, di quelli che salvano l’Euro su mandato pur avendo dato la tesi con Federico Caffè.
(Featured Image Credits: Investireoggi.it)
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Riccardo Italo Scano

“Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.”. View more articles
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