Mi è capitato spesso di passeggiare per le rive triestine: un privilegio di qualche anno fa, sospeso a metà tra la brezza estiva (ovviamente più leggera della Bora), dedicatami con eleganza dall’Adriatico incorniciato nel tramonto, e gli ipnotici giochi di luce riflessi sui vetri delle architetture mitteleuropee di Piazza Grande. Dal Molo Audace fino al Venezia, terra e mare si incontrano senza soluzione di continuità per creare un ambiente unico che solo la mia Trieste può offrire allo sguardo… e al palato. Ma come spesso accade – “ebbri”, magari, di una doverosa sosta al Tommaseo sul lungomare –, le opzioni paiono ridursi velocemente a due sole destinazioni: ci si ritrova così a scegliere se cedere al magnetico romanticismo del molo dei Bersaglieri (con le dovute dosi di Spritz, si può perfino finire a discutere con la statua delle Sartine) o al più naturale richiamo dei locali, rientrando verso il portico del Comune in Piazza Unità d’Italia. E combattuti tra le due estremità del classico pomeriggio nel capoluogo Veneto-Giuliano, si dimentica la via di mezzo. Fermandosi appunto a metà strada tra il cuore del Borgo Giuseppini e la Riva Nazario Sauro, schiacciato tra i nomi dei generalissimi che si diedero il cambio sull’Isonzo-Front dopo Caporetto (Via Luigi Cadorna e Via Armando Diaz), ci si imbatte nel signorile palazzo Revoltella, suntuosa dimora dell’omonimo imprenditore ottocentesco che fu vicepresidente della Compagnia universale del Canale di Suez. Quello stesso tratto d’acqua che, ormai più di una settimana fa, è stato lo scenario di tutt’altra “caporetto”: quella della società Evergreen e, possibilmente, della globalizzazione tutta.
Questa sentita introduzione a rammentare – come è ormai consuetudine della rubrica – quanto intimo (seppur sopito) sia il legame tra le sponde italiane e le rive africane del Mediterraneo. Sebbene Revoltella non fosse il più vivace sostenitore della causa unitaria, anzi fedelissimo baronetto dell’Impero Austro-Ungarico, la sua intraprendenza e il suo fiuto non possono che definirsi italiani in tutto e per tutto: perché italiana è e rimase Trieste, anche sotto l’aquila bicipite d’Asburgo, erede qual è della Serenissima soprattutto per quanto riguarda la marineria da guerra. Quello di Revoltella è un retaggio che, da questa ultima crisi di Suez, ne esce “deriso e calpesto” tanto quanto la reputazione della compagnia panamense detentrice dello scafo incagliato: la nave cargo “Ever Given”.
SE SUEZ SI BLOCCA…
L’integrazione commerciale è integrazione infrastrutturale: una nuova ferrovia, come fu ad esempio la prima coast-to-coast statunitense, ha il potere di ridisegnare i rapporti economici e sociali tra due emisferi. Non a caso la direttrice su rotaie della Belt & Road cinese appare tanto allettante quanto la più esplorata controparte marittima, fondata piuttosto sul potenziamento di snodi preesistenti (Suez in primis). Il minimo comune denominatore dei passaggi marittimi obbligati è il peso, in potenza, che la dipendenza da questi genera nella determinazione delle traiettorie di navigazione: tempi ridotti implicano viaggi più sicuri (meno esposti a intemperie e scorrerie di sorta), energeticamente più efficienti (quindi più ecologici) e funzionali al flusso di merci maggiormente deperibili. Se uno tra i colli di bottiglia di Panama o Singapore dovesse ostruirsi, il calcolo dei costi e delle tempistiche di ogni rotta commerciale interessata agli arcipelaghi settentrionali dell’Oceania o alle Indie Occidentali schizzerebbe inevitabilmente alle stelle. Suez, in questo, non fa eccezione.
Il blocco, durato 7 giorni, ha impedito il transito di circa 320 imbarcazioni. Ogni giorno, per Suez passa il 12% del commercio mondiale, nel quale è compreso il 30% dell’interscambio marittimo internazionale per un giro d’affari quotidiano di 10 miliardi di dollari (che frutta, nel complesso, circa 5 miliardi e mezzo di dollari l’anno al paese ospite del Canale, l’Egitto). La stima del danno sommerso è quindi di almeno 70 miliardi di dollari, cui si può sommare il prezzo dei trasporti improvvisamente levitato con la decisione di circa 30 imbarcazioni di intraprendere “il giro lungo” attorno all’Africa. Il danno complessivo, in termini materiali, è ripartito tra la compromissione delle merci deperibili (nella quale si inserisce anche la salute del bestiame trasportato), il ritardo della consegna delle materie prime (metallurgiche e petrolifere) e il ritardo di consegna delle merci semi-lavorate essenziali alle catene di produzione internazionale in offshoring.
Un colpo alla globalizzazione che sicuramente aumenterà i sostenitori della necessità di una BRI cinese utile alla diversificazione delle tratte commerciali, in un’ottica di mitigazione dei rischi.
A SUEZ C’È POSTO SOLO PER TURCHI (E CINESI)
Una scorciatoia lunga 150 chilometri per tagliare il capo di Buona Speranza e le Colonne d’Ercole fuori dall’equazione delle rotte marittime commerciali tra Asia ed Europa mediterranea: l’istmo di Suez cedette così il passo al canale artificiale per potenziare esponenzialmente le capacità di scambio tra le due metà del continente indoeuropeo, lasciando (almeno fino alla nazionalizzazione promossa da Nasser) un fondamentale passaggio obbligato nelle mani di francesi e britannici. Oggi, il corso è indiscussa acqua territoriale dell’Egitto; ma anche se da lungo tempo sono state fugate le mire dei transalpini e degli albionici con la crisi del ’56 (nel contesto della crescente tensione della Guerra Fredda), un’altra penisola fa ombra sullo sbocco… e non è certo quella italiana.
Nella ratio di espansionismo marittimo contenuta nella nuova dottrina turca del Mavi Vatan (lett. “Patria Blu”), Erdogan rispolvera la più classica geopolitica statunitense dell’ammiraglio Alfred Mahan, postulatore della teoria navalista e della talassocrazia realista, cosciente cioè dell’impossibilità di controllare le infinite distese di acqua salata tra l’una e l’altra costa, ma con un occhio di riguardo per quei brevi tratti dove il mare “vien a ristringersi e a prender figura di fiume”: perché rischiare l’overstretching logistico sull’intero oceano Atlantico quando, per piegare parte del vecchio continente, basterebbe aver voce in capitolo sulla percorribilità di Gibilterra e Suez? Di questa ritrovata dimensione anfibia della Turchia si erano, recentemente, già intravisti i primi segni con la corsa ai giacimenti nell’Egeo, tradottasi nella stipula di un accordo bilaterale Ankara-Tripoli (per la definizione delle reciproche e non confliggenti Zone Economiche Esclusive) e nella successiva occupazione delle acque territoriali di Kastellorizo (la greca spina nel fianco meridionale dell’Anatolia).
Sul blueprint della Via della Seta cinese si leggono ora impresse (e sempre più nitide) le iniziali del “Sultano ottomano” che cerca di riallacciare i rapporti con il “Faraone” Al-Sisi. La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Egitto risale proprio allo scorso 11 Marzo 2021, dopo più di 7 anni di gelo e proxy-war nella contesa di Sirte. I due giganti sunniti dell’area mediterranea sembrano aver raggiunto un equilibrio propedeutico ad una pacifica spartizione del territorio libico e delle ricchezze energetiche che vi giacciono (almeno quelle che non siano già proprietà dei russi, come i pozzi del Fezzan), pacificazione scandita tuttavia dai dieci punti di un accordo informale tutt’altro che bilaterale: di fianco alle più comprensibili e percorribili richieste economiche (come appunto l’istituzione di una seconda coppia di ZEE tra Il Cairo e Ankara) e di Interpol (in un’ottica di contrasto ai Fratelli Musulmani), l’Egitto sembra deciso a voler imporre una demilitarizzazione della Mezzaluna petrolifera.
In attesa di ulteriori evoluzioni diplomatiche, Erdogan (forte di un incisivo potenziamento della flotta turca) ha cercato pertanto di alleggerire il carico delle richieste dimostrandosi solidale e collaborativo con l’ “alleato” egiziano (che intanto perdeva in media 13/14 milioni di dollari al giorno), offrendo soccorso alla “Ever Given” con la Nene Hatun Salvage & Rescue Vessel. E con i turchi si sono schierati (Danaoi dona ferentes) gli statunitensi e i nipponici, tutti su mandato dei rispettivi governi nazionali. Gli italiani, al contrario, chiamati sul luogo dagli olandesi, impiegano il rimorchiatore Carlo Magno senza alcuna comunicazione ufficiale alle spalle. Dettaglio assolutamente coerente con lo spirito di un Paese che non ha mai avuto intenzione di fare politica nel Mediterraneo, nemmeno dove gli investimenti triestini furono la chiave di volta per un’opera infrastrutturale talmente imponente da inaugurare la prima globalizzazione.
(Featured Image Credits: Ticinonews)
Riccardo Italo Scano

“Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.”. View more articles
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