Non Solo Boris

I nuovi volti del partito Conservatore tra tradizione e riforma

Sulle pagine della prestigiosa rivista statunitense “The Atlantic” è recentemente apparso un brillante e sorprendente ritratto di Boris Johnson, intitolato “Il Ministro del Caos”, e firmato dal giornalista Tom McTague. Dalle righe di questo piccolo capolavoro di giornalismo, il noto Premier britannico emerge come una figura caleidoscopica, sfaccettata, imprevedibile e impossibile da centrare appieno, un leader spesso contraddittorio e disattento, ma sempre animato da un incrollabile ottimismo.

Non sorprende, dunque, che la vivida personalità del Primo Ministro, con le sue molte gaffe, le sue dichiarazioni sconcertanti e i suoi progetti iperbolici finisca con il monopolizzare molta dell’attenzione della stampa, sia estera che domestica, spesso a discapito di figure più silenziose e defilate, ma anch’esse cruciali all’interno del Governo e del partito Conservatore.

Una di queste “eminenze grigie”, e per molti versi un vero e proprio negativo di Boris Johnson, è il Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak.  Nato in Inghilterra da una famiglia di origine indiane, educato al prestigioso Winchester College e poi alle Università di Oxford e Stanford, Rishi Sunak è entrato in politica solo nel 2015, dopo aver lavorato presso la celebre banca d’affari Goldman Sachs. Spesso descritto come ambizioso, disciplinato, studioso e sempre ben preparato, il Cancelliere, i suoi completi inamidati e i suoi discorsi attentamente preparati offrono un contrasto netto e immediatamente visibile con il suo appariscente ed estemporaneo superiore.

Ad un’analisi più attenta, tuttavia, le due figure rivelano anche una serie di similitudini notevoli. Entrambi, infatti, fanno parte di quella élite internazionale, “globalizzata” ed estremamente colta, che vanta significative esperienze all’estero (entrambi hanno vissuto a lungo negli Stati Uniti, ad esempio) e che poco sembrerebbe riflettere il vissuto ed i bisogni di elettori spesso non benestanti o disoccupati, relegati in piccole realtà post-industriali e lontani da metropoli “mondiali” come Londra. Nonostante ciò, sia Rishi Sunak che Boris Johnson sono riusciti a conquistare i voti di queste fasce di popolazione, proponendo un nuovo progetto che bilancia politiche tradizionalmente conservatrici con elementi inediti, quali l’attenzione all’ambiente o l’impegno a rilanciare parti “svantaggiate” del paese.

L’apporto più significativo (fino a oggi) del Cancelliere a questo nuovo programma è giunto sabato 5 giugno, a seguito di una riunione con le sue controparti appartenenti ai paesi del G7. L’incontro, tenutosi a Londra, ha rappresentato il preludio al meeting vero e proprio dei leader delle sette maggiori nazioni industrializzate, che si è svolto una settimana più tardi, con sede in Cornovaglia.

Al termine di questo round “preliminare” di negoziazioni, infatti, Rishi Sunak ha annunciato tramite una serie di tweet il raggiungimento di un accordo sulla riforma del sistema fiscale globale: una mossa che avrà di certo sorpreso (e probabilmente scontentato) la vecchia guardia conservatrice legata all’ortodossia neoliberale di stampo Thatcher, ma che sarà stata invece ben accolta da molti nuovi elettori “Tory”.

L’accordo sembrerebbe basarsi su due “pilastri” complementari (proposti originariamente dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che dovrebbero rendere il sistema di tassazione mondiale più equo e più in linea con un’epoca in cui sono i flussi incorporei di dati, piuttosto che di merci fisiche, a generare profitti.

Il primo “pilastro” riguarda infatti quelle multinazionali che operano con margini di profitto superiori al 10% – e cioè, i giganti tech quali Facebook, Apple o Microsoft. Il 20% dei guadagni superiori a questa soglia verrebbero tassati, sotto il nuovo regime fiscale, nel Paese stesso in cui le operazioni hanno luogo, e non nella giurisdizione di residenza per motivi fiscali. Per completare questo provvedimento, il secondo “pilastro” prevede l’adozione di una tassa minima al 15% in tutto il mondo, in modo da ridurre l’attrattiva dei paradisi fiscali, che fino ad oggi hanno costretto i vari Governi ad una sorta di gara al ribasso sulla tassazione.

Inoltre, l’accordo prevede maggiore trasparenza ed attenzione su questioni ecologiche di varia natura. Ad esempio, è stata promossa l’incorporazione dei risvolti ambientali sulle decisioni finanziare, e sono stati discussi i miglioramenti da apportare al “Company Beneficial Ownership Registry” per contrastare i crimini ecologici.

Nonostante l’indiscutibile natura epocale di questo accordo, non sono mancate alcune critiche. In molti, ad esempio, avrebbero preferito una tassa minima che si aggirasse intorno al 21%: lo stesso Presidente USA Joe Biden, rappresentato per l’occasione dalla Segretaria del Tesoro Janet Yellen, sembrava spingere in questa direzione, ma ha accettato il compromesso nell’ottica di un primo, importante passo sul quale in seguito costruire ed ampliare. In cambio del suo supporto, inoltre, Janet Yellen ha ottenuto la rimozione della digital tax da parte dei Paesi europei, mossa che non è stata universalmente ben ricevuta a Bruxelles.

Altri hanno evidenziato come il primo pilastro lasci aperte delle pericolose “scappatoie” per alcune multinazionali. Amazon, per esempio, nonostante la sua performance stellare sui mercati finanziari, non raggiungerebbe nel complesso la soglia minima del 10% prevista dall’accordo, in larga misura perché le sue operazioni retail operano con un margine di profitto bassissimo o quasi nullo. Nel compromesso dovrebbe dunque essere inclusa una clausola di “spacchettamento”, in modo da permettere alle autorità fiscali di tassare in maniera indipendente le varie parti che compongono conglomerati mastodontici come Amazon. Ad esempio, Amazon Web Services, il braccio del colosso di Seattle che si occupa di cloud computing, potrebbe essere tassato, in quanto dichiara margini di profitto superiori al 30%.  

Non è chiaro se e quando queste contestazioni verranno affrontate e risolte. L’accordo, prima di essere tradotto in proposte di legge dalle autorità competenti, dovrà inoltre essere esteso al G20 (il gruppo che include, tra gli altri, Cina, Russia e Arabia Saudita), e potrebbe poi fungere da ossatura per la riforma promossa dalla già citata Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, di più ampio respiro, che punterebbe ad includere ben 130 Paesi.

Anche le tempistiche di questo iter burocratico rimangono in dubbio. L’unica certezza è che questa iniziativa ha il potenziale di scuotere profondamente il sistema attuale, fungendo da vero e proprio momento di “rifondazione” per il Washington Consensus e dando nuova vita ad istituzioni in declino. Per il partito Conservatore potrebbe rappresentare un successo importante, e una dipartita da principi ormai sempre più impopolari, indicando inoltre la via ad altri, come il partito Repubblicano, che sono in cerca di una formula vincente per il ventunesimo secolo. E per il Cancelliere Rishi Sunak potrebbe trattarsi di una chance fondamentale, un modo per uscire dalla lunga ombra dell’esuberante, stravagante Johnson, e costruire il prossimo passo della sua già meteorica ascesa politica.

Featured Image Credits: The Times

About the Author

Luca Venga

Nato a Rieti nel 1999, da sempre si interessa di storia, geopolitica e relazioni internazionali. Dopo aver vissuto negli Stati Uniti e in Germania, dove consegue l’International Baccalaureate Diploma, si trasferisce a Manchester per frequentare il corso di laurea triennale in Politics and International Relations presso la University of Manchester (ottenendo il Leadership Award per l’anno accademico 2020/21). Affascinato da lingue e culture diverse, ama leggere e viaggiare, dedicandosi ad esperienze di volontariato quali il Tanzania Project e il Community Mapping Project Uganda. View more articles

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