Tra le misure adottate per gestire la pandemia e l’interesse economico del Paese esiste un nesso strettissimo e sempre più lampante. È innegabile che i provvedimenti attuati, più o meno discutibili, siano mossi, oltre che dall’obiettivo primario di tutelare la salute dei cittadini italiani, dalla necessità di salvaguardare l’interesse economico collettivo.
Il vero punto della questione, in effetti, è che l’economia italiana “gridava aiuto” già prima della crisi pandemica da Covid-19, circostanza, questa, che ha aggravato oltre ogni aspettativa le condizioni del tessuto imprenditoriale nazionale.
Si dibatte, tuttavia, sulla effettiva efficacia dei provvedimenti intrapresi, oltre che sul senso e la logica alla base degli stessi, sempre in un’ottica di come questi debbano impattare positivamente e favorire una ripresa finanziaria. Innanzitutto, ci si chiede: se la ragione primaria delle aperture è quella di evitare la chiusura definitiva di altre attività sul territorio nazionale, come si concilia questo fine con i limiti di orario imposti alla maggior parte delle imprese? In aggiunta, si contesta la mancanza di fondamento scientifico della scelta di prolungare il coprifuoco: “dopo Carosello tutti a letto”, ma tra “tutti” è compreso anche il virus? Ironizzando sull’argomento non si nasconde lo scetticismo a riguardo. Ancora, ci si domanda quanto davvero, in concreto, si stiano aiutando i lavoratori italiani a gestire difficoltà sempre più pressanti e gravose.
Questi sono soltanto alcuni dei temi all’ordine del giorno ormai da mesi. Il dibattito pubblico ha ad oggetto l’incoerenza apparente di tante decisioni adottate e il fatto di dubitare sempre più dei risultati positivi, in termini economici e sanitari, cui esse dovrebbero condurre. Soprattutto considerando che una norma è vincolante nel momento in cui a una sua violazione corrisponde una sanzione, altrimenti restano parole.
Alitalia: decollo o atterraggio?
Più di tutto, va facendosi strada una rabbia crescente in merito agli scenari di politica industriale, e in particolare si fa riferimento alla questione Alitalia. In un Paese il cui fulcro del tessuto economico è costituito da PMI (piccole e medie imprese), è tollerabile guardare il destino di queste ultime naufragare e al posto loro preferire l’ennesimo, disperato, tentativo di salvataggio di società, nella sostanza, “fallite” ormai da tempo? Pur con la consapevolezza che le PMI sono, molto probabilmente, l’unica ancora di salvezza che ci resta.
Quello che dovrebbe orientare qualsiasi decisione politica è l’analisi del contesto in cui essa andrà a collocarsi e le condizioni in cui tale posizionamento avverrà. E questo è tanto più valido e veritiero quanto più il settore cui si fa riferimento è in bilico, sintesi perfetta della situazione industriale italiana. Contestualizzare le scelte che si compiono quando si ha la certezza che le conseguenze di dette azioni avranno riflessi potentissimi è cruciale. L’Italia si caratterizza da sempre per il fatto che il vero collante della propria economia sono le imprese di piccole e medie dimensioni, presenti su tutto il territorio nazionale in misura nettamente superiore alle grandi imprese, fonte principale di occupazione e guadagno per il nostro Paese.
Un grande colosso quale Alitalia è, triste verità, perso da tempo, e per quanto si provi ancora a costruire una strada lungo la quale esso dovrebbe rifiorire, è inconfutabile dover ammettere che le speranze per la compagnia aerea sono esaurite da periodo immemore. L’opzione di abbandonare la suddetta società al proprio destino, forse mai davvero presa in considerazione, apparirebbe la più logica, soprattutto in un momento storico in cui l’alternativa è investire forze e fondi nel futuro di altre realtà che, seppur più piccole, nel loro insieme hanno un valore, economico e affettivo, ben maggiore.
L’immagine di strade vuote e saracinesche abbassate è autentica e tangibile, ora più che mai, e lo sarà per un lungo periodo, a prescindere dall’evoluzione della situazione sanitaria, se non si avrà la lucidità di riconoscere il sempre più insistente bisogno di un cambio di direzione. Il “Paese degli investimenti a perdere” ha impellente necessità di diventare lo “Stato delle scelte prospere”, e questo sarà possibile solo se si inizia a far leva su quelli che sono i fattori critici di successo della nostra nazione, imparando a sfruttare il potenziale che si ha a disposizione, apprezzandolo e avendone cura.
Diamo i numeri: 8 miliardi in 4 anni.
8 miliardi (o poco meno) è la somma complessiva cui ammontano tutti gli aiuti di Stato devoluti alla compagnia aerea Alitalia dal 2017 ad oggi. Denaro, questo, andato interamente bruciato negli anni.
La storia infinita dell’azienda italiana ha inizio il 2 maggio 2017, quando, a un passo dal fallimento, la società entra in amministrazione straordinaria (procedura concorsuale prevista dal diritto fallimentare italiano e che dovrebbe permettere a una grande impresa versante in stato di insolvenza di elaborare un piano che ne consenta la ripresa); procede poi, poco dopo, con la nomina di tre commissari straordinari da parte del Ministero dello Sviluppo Economico e l’erogazione di un prestito-ponte di 900 milioni di euro. Nel 2020 Alitalia viene nazionalizzata con il “Decreto cura Italia” e il Ministero dell’Economia e della Finanza ne acquisisce il 100% delle azioni. A novembre dello stesso anno passa in mano alla NewCo ITA – Italia Trasporto Aereo S.p.a., di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanze (con un capitale sociale di 20 milioni).
Queste, in estrema sintesi, le vicende che hanno caratterizzato la famigerata impresa negli ultimi anni, senza soffermarsi sugli episodi che hanno visto protagonisti i lavoratori e i sindacati, né tantomeno sui rapporti controversi con la Commissione Europea, manifestamente diffidente del costo che Alitalia ha rappresentato, e tutt’ora rappresenta, per il nostro Paese, oltreché della correttezza e della congruità degli ausili alla stessa ceduti.
Il vero nocciolo si cela però nel dubbio che affligge tutti: perché lo Stato italiano persiste imperterrito lungo questo percorso tortuoso? Ne vale davvero la pena? Ebbene, qui le acque si dividono, tra chi perdura nel sostenere con convinzione la potenzialità, in termini di occupazione e redditività, che l’impresa rappresenta per la nazione, e chi, al contrario, pur non negando la capacità remunerativa del settore, è accanito fautore di soluzioni alternative, considerate molto più proficue, sempre in termini di occupazione e redditività.
In effetti, è incontestabile che il settore dei trasporti aerei abbia dimostrato di essere, anche in un periodo tanto critico, solido e profittevole. Ciò, tuttavia, fa anche riflettere su come sia possibile, per una compagnia operante in questo ramo e per di più dotata di tanti finanziamenti, continuare a generare risultati negativi. Non sarà per caso che nel 2017 si è trattato, più che di un atterraggio, di un vero e proprio schianto per la società? È forse possibile che ormai sia così dipendente dagli aiuti dall’alto, da non essere più in grado di volare con le proprie ali?
La chiave del futuro economico italiano: le PMI.
Guardare verso una nuova direzione non necessariamente vuol dire guardare molto lontano da dove si è, e pare essere proprio in questo la chiave di volta, o forse per meglio dire, di svolta, per dare avvio a un rilancio dalle basi solide come non mai.
In Italia, nel 2019, le piccole e medie imprese impiegavano l’82% circa dei lavoratori e rappresentavano il 92% circa delle imprese attive. Esse sono un tratto, come si è detto finora, centrale dell’economia italiana, soprattutto nelle regioni meridionali. Senza contare quanto sia fondamentale il ruolo dalle stesse rivestito in catene del valore globali. Eppure, nonostante i dati, si sono sempre trovate parecchi passi indietro, sotto molti punti di vista, già prima del Covid. Per queste ultime ragioni sono quelle che, nell’ultimo anno, hanno accusato il colpo più delle altre, seppure in maniera non propriamente omogenea (i dati variano infatti a seconda del settore e del posizionamento geografico, ma non sono positivi in ogni caso).
Questo dovrebbe far suonare un campanello d’allarme molto potente, perché ci sono degli interventi da fare e che richiedono un’urgenza improrogabile, interventi mirati non solo a promuovere gli investimenti ma, soprattutto, di carattere strutturale, volti cioè a favorire una stabilità essenziale e a potenziare le performance. Digitalizzazione, promozione, sono solo alcuni degli aspetti su cui si dovrebbe puntare, al fine di valorizzare quelle imprese che rappresentano oltre la metà del nostro tessuto industriale, la cui immagine è per questo legata a quella dell’intero Paese.
È vergognoso avere un potenziale così elevato e non sfruttarlo, anzi sottovalutarlo e trascurarlo, e questa è una lacuna che va sanata immediatamente. Non c’è più tempo da perdere, perché i fattori su cui si ha il dovere di operare sono molteplici e profondi, mentre il rischio che sia troppo tardi è più vicino di quanto faccia piacere pensare.
Se solo si riuscisse a comprendere l’importanza delle piccole cose, ad aprire gli occhi e vedere che sono proprio quelle per cui, quasi sempre, ci si perde, sicuramente si potrebbe rivolgere anche al futuro uno sguardo differente.
Pare imprescindibile concludere con un quesito: se non è ancora chiaro dove si vuole arrivare, è possibile affermare di essere certi di come ci si sta muovendo?
(Featured Image Credits: Freepik)
About the Author
Mafalda Pescatore

Nata ad Avellino nel 2001. Ha conseguito il doppio diploma ESABAC. Frequenta il corso triennale di economia e management presso la LUISS Guido Carli, a Roma. Innamorata della cultura, da sempre. Particolarmente interessata a tematiche di attualità di natura politico-economica. Nel 2019 ha recensito e giudicato i romanzi iscritti alla finale del Prix Goncourt. Nel 2020 è stata volontaria per l’UNICEF, contribuendo a pubblicizzare il Progetto Pigotta. View more articles.
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