Se Non È Ambiguità È Indecisione: L’Italia Tra L’Aquila Atlantica E Il Dragone D’Oriente

Che l’Italia abbia da tempo disimparato a tracciare i contorni di un proprio interesse nazionale — formula al contrario assai preziosa per i realisti anglosassoni — è cosa nota. Indipendentemente dalle cause a monte di questa ricorrente mancanza di visione strategica, talvolta attribuita all’appiattimento della Ragion di Stato su obiettivi comunitari, talvolta allegata all’intrinseca debolezza di una Repubblica nata e cresciuta sotto il tallone dei vincitori dell’ultima guerra, ciò che oggi ci rimane da proiettare al di là dei confini è poco più di un’azione diplomatica imperniata sulla condiscendenza e sul multilateralismo. Ma di tanto in tanto, secondo i tempi e i modi di quelli che Modelski chiamava i “cicli della storia”, qualche pedone avanza di casella e sbilancia la partita: in quelle brevi finestre di novità e disequilibrio, l’Italia si è spesso trovata ad ostentare tutta la sua ambivalenza e subalternità ai re e alle regine dello scacchiere. Da quando il blocco occidentale poggiò le sue ali da rapace sulle coste orientali dell’oceano Atlantico, la nostra penisola, tra tutti i paesi cuscinetto, costituì l’alleato europeo più instabile e indecifrabile della Guerra Fredda. Per ogni lauto e decantato pacchetto di dollari ricevuto nel triennio del piano Marshall, un più contenuto assegno ci veniva passato sottobanco da Mosca (come inscritto nel dossier Mitrokhin); per un Herbert Klein coinvolto nel golpe Borghese, un Sergeij Sokolov invischiato nel caso Moro; per ogni tavolo condiviso con gli americani in seno alla NATO, un viaggio di troppo di Spadolini a Shanghai (al tempo già “complice” di Craxi e Andreotti nell’azzardo di Sigonella).

E rimanendo proprio su quell’estremità orientale del continente asiatico che, come da titolo, è la porzione di terra che più ci interessa, l’Italia del secondo dopoguerra, non appena presentatasi l’occasione (ossia la rimozione nel 1970 dell’embargo atlantico ai contatti diplomatici con la Cina), spiccò da subito per un’insolita autonomia in fatto di rapporti bilaterali con il gigante sinico: senza nemmeno addentrarsi nei contenuti dei successivi incontri intergovernativi — il volume dei quali aumentò soprattutto a partire dagli anni ’80 —, la sola tempistica del riconoscimento diplomatico inoltrato alla Repubblica Popolare Cinese (ben 5 anni prima di quello comunitario e 9 anni prima di quello statunitense) fu di per sé esemplificativa di quanto atipica e assieme stretta già fosse la connessione tra il Mediterraneo e il Mar Cinese.

L’aquila americana scruta più a Est della Russia

Ma lo scacchiere prima o poi si inclina e le pedine sono chiamate a scivolare verso l’estremità avversaria in posizione offensiva: la mano americana che nel lontano 1796 aveva mosso il primo pezzo alla ricerca di un importante sbocco commerciale a Est, negli ultimi quattro anni di amministrazione repubblicana si era invece rifugiata in un arrocco, riducendo l’alleanza atlantica ad un soprammobile della scrivania presidenziale, ora intenta a chiudere un occhio sulle trasgressioni turche nell’Egeo, ora spogliata della condivisione intercontinentale di tecnologie di Intelligenza Artificiale (A.I., nello stesso momento storico in cui lo State Council Document No.35 2017 di Pechino stabiliva il «goal to become a global innovation center in the Artificial Intelligence field by 2030»). Ma se a Oriente imperano la coerenza e il dirigismo di un partito unico fuso con l’apparato statale, a Occidente la volatilità strategica e i cambi di rotta sono rimessi agli esiti delle varie elezioni. E benché l’amministrazione Biden, da poco insediatasi a Washington, non intenda ereditare quasi nulla della politica estera trumpista (ne sono la prova la repentina degradazione dei rapporti diplomatici col Cremlino e il dirottamento degli “Accordi di Abramo” in Palestina), la paura per il Dragone pare essere sopravvissuta al trasferimento di potere.

Sebbene la gran parte degli investitori che hanno patrocinato la campagna elettorale del neoeletto presidente (la BlackRock su tutti) abbiano massicci interessi finanziari nel mercato cinese, il potenziamento delle operazioni di pattuglia navale nell’Indopacifico rimane opzione centrale dei Democratici, che non rinunciano ad esortare gli alleati europei a schierare le proprie navi a fianco dei 200 scafi della United States Pacific Fleet (su un totale di 293, guardando alla US Navy nel complesso) e dei 47 della Forza marittima di autodifesa nipponica. Una dimostrazione di forza che, tuttavia, nulla può — almeno nominalmente — contro le 350 unità della Marina cinese (la quale, rispetto alle forze marittime americane attive nella regione, vanta un rapporto stabile di navi Multi-Mission Surface Combatant di 9 a 1). L’indirizzo del Pentagono è, ovviamente, condiviso anche dal Segretariato generale della NATO, sebbene tale affinità non si sia ancora tradotta in un dispiegamento interalleato di sostegno alle marine nazionali già di ronda nel Pacifico: lo scorso 8 giugno 2020, in occasione di un briefing sul riassetto strategico dell’organizzazione atlantica (un processo di revisione avviato nel marzo dello stesso anno), Stoltenberg non esitava a sottolineare la pericolosità dell’asse sino-russo e della sua inevitabile propensione all’ingerenza negli affari politici ed economici dei popoli europei; questo, al netto del fatto che le Nazioni Unite, l’organizzazione internazionale di cui la NATO costituisce il principale provider di forze, annoverano, dal 2019, proprio la Cina come secondo membro (dopo gli USA) per investimenti nelle agenzie sussidiarie specializzate.

L’ambivalenza italiana tra alleanze indefettibili e partenariati scomodi

In questo complesso gioco di potenza si inserisce, in tutta la sua maestosa ambiguità, la nazione italiana: membro fondatore dell’Alleanza Atlantica e, allo stesso tempo, unico tra i paesi G7 ad aver sottoscritto il Memorandum of Understanding per l’ingresso nella Belt & Road Initiative (la biforcuta riedizione della “via della seta”). Reduce da un proficuo coordinamento con l’“alleato” cinese nelle operazioni di polizia nel 2012 (per il reciproco controllo dei turisti in visita nei rispettivi territori) e da una altrettanto fruttuosa esercitazione militare nel Mar Tirreno tra il 2017 e il 2018 (un aggiornamento tattico necessario per la Marina cinese intenta a contrastare la pirateria yemenita nel Mar Rosso, in difesa dei suoi possedimenti a Gibuti), l’Italia ha infine coronato il suo spunto di autonomia diplomatica sottoscrivendo un documento d’intesa (non vincolante, come prescritto nel paragrafo conclusivo del testo) tutt’altro che conveniente. Nel marzo 2019, l’allora Ministro per lo Sviluppo Economico Di Maio, spinto dall’esigenza di riequilibrare la bilancia dei pagamenti, firmava il testo dell’accordo-quadro che avrebbe garantito all’Italia di beneficiare di capitali cinesi per circa 7 miliardi di euro (pari allo 0,01% della spesa cinese complessiva di 700 MLD, ripartito tra 60 paesi beneficiari), erogati da investitori istituzionali cinesi a 29 aziende nei nostri settori strategici, per tramite della Cassa Depositi e Prestiti (che avrebbe emesso le c.d. obbligazioni “Panda Bond” in Cina, in valuta locale, per la raccolta della liquidità pattuita, poi reimmessa nel nostro sistema-paese tramite circuito bancario).

L’accordo allarga lo scope anche ad altre issue areas non immediatamente finanziarie, ma comunque funzionali ad un potenziamento del bilateralismo politico e della sinergia economica tra i due Paesi. Tra i punti elencati si segnalano: il coordinamento tecnico e normativo delle politiche da implementare contestualmente al potenziamento delle esportazioni; un miglioramento degli assetti di trasporto, in termini infrastrutturali e di connettività; la formulazione di un piano di gemellaggio tra città e siti UNESCO, in un’ottica di incentivo al turismo; l’abbattimento di qualsiasi restrizione al commercio di manifatture e agli investimenti monetari; e la creazione di un comune ambiente fiscale funzionale alla cooperazione finanziaria.

Taipei: un’altra Hong Kong dopo un’altra Urumqi

Supponendo una — già difficile — convivenza di questi due interessi, per loro natura mutualmente esclusivi (la partecipazione alla RIMPAC nel Pacifico da un lato, e il partenariato commerciale cinese dall’altra), quanto ci vorrà prima di veder saltare il fragile castello di carte? Per quanto ancora gli americani tollereranno una concorrenza economica (promossa dai centri di ricerca Huawei e ZTE direttamente sul nostro territorio nazionale) al loro dominio militare (le FOB in Sicilia, Campania, Toscana e nel Triveneto)? Quante settimane o mesi, al massimo, passeranno prima che a una nave italiana venga assegnato il compito spinoso di una ronda nei pressi del mare territoriale di Formosa?

Xi Jinping non fa, ormai, più segreto di voler riunificare i tanti volti della frammentaria Cina, anche se questo significa opprimere e reprimere realtà culturalmente diverse e valorialmente occidentalizzate. Forte del lassismo e della codardia della comunità internazionale tutta, lo State Council non ha avuto alcuna remora di trasformare lo Xinjiang in un incubo di campi di prigionia e pulizia etnica (ma nascondendolo abbastanza perché non si vedesse nulla dall’aeroporto internazionale di Urumqi); come non ha esitato a trasformare Hong Kong in una seconda Macao, senza spazio per economia di mercato e democrazia. E dopo la borsa hongkonghese, viene ora il turno delle preziose infrastrutture telematiche del Taiwan: solo negli ultimi 6 mesi, Taipei (che ha già provveduto ad aggiornare la sua logistica militare) ha visto la sua incolumità minacciata e i suoi spazi trasgrediti almeno tre volte, con fare esplicitamente intimidatorio. Partendo dal 29 agosto 2020, quando la RPC lanciò quattro missili balistici anti-nave “carrier killer” nel Mar Cinese Meridionale, e arrivando alle violazioni dello spazio di difesa aereo dell’isola tra il 24 e il 25 gennaio 2021 (Taipei ha denunciato l’approccio illegittimo di 12 cacciabombardieri, 2 aerei antisommergibili, 8 bombardieri con capacità di trasporto di testate nucleari e 4 jet da combattimento), passando per gli ingressi nell’ADIZ di inizio dicembre 2020, non esiste alcun argine alle mire di Pechino.

La prospettiva di un Mare tra due Oceani

Se il modello di investimento cinese osservato in Angola non fosse già un suggerimento abbastanza esaustivo circa la necessità di intrattenere rapporti “paritari” e non subalterni con la Cina; se la ricompensa della solidarietà inizialmente riservata alle enclaves cinesi integrate nel nostro territorio, contro la stigmatizzazione che li descriveva come untori e portatori naturali del virus, non fosse stata annullata dal tentativo dell’informazione cinese di addossare al Nord della nostra penisola la diffusione del morbo; e se perfino il disegno originale che vedeva Trieste come culmine della nuova “via della seta marittima” non fosse venuto meno col sopraggiungere degli investimenti tedeschi (il colosso amburghese Hhla ha infine sottratto alla China Merchant, con una spesa di circa 1 MLD di euro, la succulenta preda del molo Veneto Giuliano); insomma se tutto questo non avesse alcuna valenza nel computo dei pro e i contro, forse allora dovrebbe riportarci ad una dimensione mediterranea ed a più miti consigli la voce di Fayez al-Serraj, che chiedeva aiuto all’Italia prima che Ankara ci precedesse nell’invadere Misurata e difendere la Tripolitania, in barba ad embarghi e divieti.

La questione non è cosa scegliere tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico, ma di lasciarci godere il terzo incomodo: il Mediterraneo, un mare (non più) “nostrum”, che ci compete per naturale aspirazione e per posizione geografica.

(Featured Image Credits: Forbes)

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Riccardo Scano

Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.View more articles. 

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