La tragica morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci ha portato — seppur fugacemente — la Repubblica Democratica del Congo al centro del dibattito nazionale italiano. Lo scenario che fa da sfondo al brutale assassinio cui si è assistito sulla strada per Kiwanja è una pericolosa miscela di anarchismo e violenza che getta un preoccupante cono d’ombra sulla vicenda che vede coinvolti i nostri — compianti — servitori dello Stato. Ed è pertanto necessario, ancor prima di interrogarsi sulla credibilità delle ricostruzioni finora proposte circa le dinamiche dell’uccisione dei due funzionari d’ambasciata, cercare di far luce sulla complessa identità del “sedicente democratico” Congo (Kinshasa), districando agli occhi del lettore quell’altrettanto confusionario groviglio di attori interessati al controllo della regione orientale della RDC.
Congo: preda della transizione democratica
La sempre movimentata area subsahariana è imperniata sul gigante congolese, secondo per estensione solo alla Nigeria, tanto povero nelle finanze quanto ricco nei giacimenti di cobalto (circa il 50% della produzione mondiale) che gli sono costati — come già fu per il cacciù — gli sguardi e le ingerenze di mezzo planisfero: ad oggi, l’RDC post-Kabila si trova sospesa tra una interminabile transizione democratica, alcuni tentativi di integrazione economica regionale e un graduale reinserimento nella comunità internazionale. Nella persona dell’attuale capo di Stato congolese, Felix Tshisekedi, coincidono ora le cariche di Presidente della Repubblica e di Presidente in carica dell’Unione Africana: un allineamento che apre, indubbiamente, a scenari di collaborazione economica e politica più proficui e meglio controllabili, ma che scopre il fianco alle pericolose avances dalle superpotenze intente a spartirsi lo scacchiere del “continente nero”; così la RDC si vede improvvisamente reintegrata dagli statunitensi nell’AGOA (African Growth and Opportunity Act), nonché beneficiaria di un piano di investimenti infrastrutturali di circa 6 miliardi di dollari provenienti dalle casse della PRC.
Una nazione estremamente popolosa (90 MLN di abitanti) e che non accenna a decrescere (un tasso di fertilità altissimo, con una media di circa 6 nascite per ogni donna in età fertile), il “fu Congo Belga” è oggi diviso tanto sull’ascissa delle ideologie quanto sull’ordinata dell’etnia, e poggia sul piano lacerato di una storia travagliata, segnata dalla dominazione di Leopoldo II prima e dalla dittatura di Mobutu poi. L’instabile formula poc’anzi espressa, di cui povertà, oscurantismo (mediatico) e massacri costituiscono gli addendi, disegna una realtà demograficamente sbilanciata per geolocalizzazione e distribuzione di ricchezza: una società urbanizzata per lo più concentrata nella capitale ad Ovest, Kinshasa, e nei capoluoghi delle provincie occidentali adiacenti (Matadi e Bandundu in primis), ma non per questo disertrice delle rive lacustri del Kivu e delle regioni dell’ex Provincia Orientale: un Est militarmente tribale (combattuto da circa 120 gruppuscoli armati) ed economicamente scorporato dal sistema-Paese (cui il governo centrale, arroccato nella sua capitale, non eroga fondi e neppure i servizi essenziali). E non mancano le difficoltà esogene: ammontano a circa mezzo milione i rifugiati provenienti dal problematico trittico di Stati confinanti a Oriente — Ruanda, Uganda e Burundi —, che si aggiungono così alla crisi umanitaria endogena dei circa cinque milioni di sfollati (secondo il più recete report dell’UNHCR) già dispersi nel territorio. Ultima ma non meno importante, la mezzaluna islamica reclama la sua quota a fianco dei principali gruppi armati stranieri (come riportato dalla DDR/RR Division del MONUSCO) operativi nel vespaio orientale, quali le FDLR ruandesi (Democratic Forces for the Liberation of Rwanda), l’LRA ugandese (Lord’s Resistance Army) e le FNL burundesi (National Liberation Forces); e questo senza bisogno di guadare il lago Ciad per infiltrarsi nella foresta del Kivu settentrionale, ma più semplicemente potenziando da remoto la componente jihadista già presente nelle schiere delle ADF (le Allied Democratic Forces ugandesi, presumibilmente foraggiate da ISIS e Al-Shabaab).
E proprio dall’accavallarsi dei due volti della “necrofilia africana” (i genocidi europei prima e l’economia di guerra autoctona poi) deriva quello che è forse il pregio maggiore della popolazione congolese: una società civile vernacolare che ha saputo fare di necessità virtù e che è riuscita a maturare, in piena autonomia, una forma di — una volta tanto si può adoperare il termine a ragion veduta — resilienza organizzativa, ottimizzando l’anarchia e sopravvivendo alle “scorie” della storia passata e recente.
10.00 AM, ora locale: attacco sulla N2
19 febbraio: Attanasio e Iacovacci atterrano all’aeroporto di Goma con un velivolo ONU (MONUSCO). Il piano è quello di soggiornare nella città fino al 22 dello stesso mese, quando un convoglio di due veicoli WFP li preleverà alle 09.27 del mattino per raggiungere Kiwanja, 73 chilometri più a Nord del capoluogo del Nord Kivu e distante due ore e mezza di tragitto attraverso il Parco nazionale del Virunga, per visitare il Programma di Alimentazione Scolastica. Con Attanasio e Iacovacci ci sono altre cinque persone (fra cui l’autista deceduto, Mustapha Milambo). Nessuna delle forze operative è stata avvisata dell’arrivo, men che meno dello spostamento della delegazione italiana: l’esercito e la polizia locale, come pure i ranger del Parco Nazionale, sono all’oscuro di tutto e pertanto impossibilitati a scortare l’ambasciatore, il suo collaboratore e il personale MONUSCO che li accompagna. Superati i primi 15 chilometri di viaggio, circa 30 minuti più tardi della partenza, il convoglio cade in un’imboscata: sei assalitori armati di machete e AK-47 (quanto basta a trapassare i vetri non rinforzati di una vettura non blindata) aprono il fuoco per intimare ai fuoristrada di arrestare la marcia e infine sequestrano la delegazione. Gli spari allertano un’unità dell’esercito nazionale e i ranger del parco che convergono sull’area dell’esplosione dei colpi. Otto chilometri più avanti del luogo del sequestro, le FA locali intercettano i ribelli. La prima vittima è probabilmente Milambo, ucciso da un colpo al collo passato attraverso il finestrino dell’auto in testa al convoglio. Quanto al veicolo di coda (quello di Attanasio e Iacovacci) abbandonato sulla strada, si ritiene i ribelli abbiano tentato di fuggire assieme ai passeggeri tenuti in ostaggio: impossibile determinare la reale finalità del rapimento, se per la riscossione di un eventuale riscatto (di sicuro, il movente iniziale, giacché rapine a mano armata e sequestri di persona costituiscono la P.O.S. dei ribelli nella regione) o per proteggersi dal fuoco dei ranger intanto sopraggiunti sul luogo; com’è d’altronde impossibile determinare la causa scatenante le successive raffiche che avrebbero ucciso sul colpo il carabiniere e ferito mortalmente l’ambasciatore. L’esercito continuerà a setacciare l’area invano, in cerca degli assalitori. In base alle testimonianze raccolte sul luogo, quest’ultimi comunicavano in Lingua kinyarwanda: la colpa viene pertanto fatta ricadere dal Ministero dell’Interno congolese sulle FDLR Hutu, dando per assunto si trattasse del gruppo armato più noto e più numeroso tra quelli in grado di parlare l’idioma; non è pertanto da escludersi aprioristicamente la complicità di altre sigle ribelli linguisticamente affini (quali Nyatura e M23). Attanasio morirà poco dopo per le ferite riportate, in un ospedale di Goma.
Il come e il perché di una tragedia evitabile
Leggerezza o mancato coordinamento? Carenza di mezzi o inefficienza cronica? E quali di queste disattenzioni sono imputabili a chi, tra le parti coinvolte nella sparatoria? Si è forse trattato di una comune sottovalutazione della pericolosità dell’area di transito compresa tra Goma e Rutshuru, a fronte dei circa 1.900 omicidi e dei circa 3.300 sequestri di persona qui registrati nell’ultimo triennio, e al netto della valutazione della Farnesina sulla rischiosità dell’area pari a 3 livelli su 4? Si è forse trattato di una comunicazione superficiale con le circa 690 ronde del Parco? E se così fosse, chi ha mancato di avvisare le forze di sicurezza o le autorità amministrative provinciali tra l’ambasciata italiana, il governo locale di Kinshasa e l’ONU, tutti informati degli spostamenti del convoglio targato WFP? E ancora, secondo quale logica un veicolo non blindato è la dotazione ONU adatta a costeggiare il limes della foresta pluviale costantemente predato dalle scorrerie delle già citate 120 sigle ribelli attive (al punto che, nell’autunno scorso, la popolazione civile stessa ha organizzato proteste lungo la strada N2 contro l’insolvenza del governo centrale in termini di giurisdizione e law enforcement)?
E a quest’ultima domanda occorre accostare un’importante considerazione. Indubbiamente, la scelta di proseguire con una scorta tanto esigua e con dei mezzi di spostamento tanto inadatti è imputabile alla discrezionalità dell’ambasciatore stesso… sennonché la discrezionalità va restringendosi sensibilmente, quando guidata più dalla scarsità di mezzi che dall’indecisione su quale adoperare. E si dà il caso che, nel novembre 2020, l’Ambasciata d’Italia avesse indetto una gara per la fornitura di un’autovettura Toyota sette posti, blindatura VR6, FUORISTRADA (in contrapposizione ai due mezzi blindati per scenari urbani già stazionati a Kinshasa, adatti ad incarichi diplomatici nell’Ovest del paese appunto): l’aggiudicazione risulta avvenuta il 12/01/2021, più di trenta giorni prima dell’incidente, eppure i nostri servitori dello Stato si sono trovati costretti a ricorrere ad un — meno protetto e meno sicuro — assetto ONU.
Tre persone sono morte, e più si osservano i retroscena della faccenda, più ci si accorge di quanto bossoli e piombo siano la concausa minore del loro decesso. Forse, per ragioni di sicurezza e incolumità, una vettura protetta è il genere di mezzo che il MAE dovrebbe essere in grado di fornire tempestivamente.
(Featured Image Credits: ANSA)
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Riccardo Scano
Sono uno studente universitario maniaco del lavoro, pessimista, estroverso, dipendente dal caffè, versatile, selettivo e politicamente impegnato, particolarmente interessato alle questioni politiche (locali, nazionali e internazionali) e culturali. Attualmente, frequento il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali (Luiss Guido Carli University) e il mio secondo corso intensivo in Geopolitica e Sicurezza Globale (ISPI School). Ho scritto la mia tesi di laurea sul rapporto tra l’ideologia di Samuel P. Huntington e la politica di confine di Donald J. Trump, insieme a una dozzina di news analyses per il settimanale online theWise Magazine, e non vedo l’ora di migliorare le mie conoscenze e competenze nel campo dei media.View more articles.
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