«Fate di tutto per riportarci in Italia». Questa la richiesta di aiuto risalente allo scorso settembre di Piero Marrone, detenuto illegalmente in Libia. Eppure le sue parole non sono state ascoltate. Sono infatti trascorsi ormai più di 70 giorni dal sequestro dei 18 pescatori – tra cui 10 di nazionalità italiana – da parte delle forze militari guidate dal generale libico Haftar. I marittimi di Mazara del Vallo sono attualmente in stato di arresto presso il carcere di El Kuelfa, mentre i due pescherecci Antartide e Medinea sono sotto sequestro al porto di Bengasi. Ma quale il motivo del fermo dei pescatori siciliani?
La sera del sequestro
È il primo settembre scorso ed a circa 40 miglia dalla costa di Bengasi gli armatori italiani sono impegnati in una battuta di pesca. I pescatori si trovano oltre le 12 miglia dal confine italiano in piene acque internazionali, potendo quindi lavorare in modo pienamente legittimo. Ciò a cui non fa riferimento la legge internazionale e che, al contrario, costituisce oggetto di contestazione nei confronti dei sequestrati, è la rivendicazione della cosiddetta zona economica esclusiva (ZEE). Già l’ex leader Gheddafi aveva, in modo arbitrario ed unilaterale, esteso, contrariamente a quanto disposto dalle norme internazionali, il confine da 12 a 74 miglia nautiche dalla costa. Le stesse condizioni che, ad oggi, sembra imporre Haftar. Di conseguenza, in questa prospettiva i pescatori sarebbero stati sorpresi a pescare in una zona di competenza esclusiva libica.
Nonostante il nostro governo non abbia mai riconosciuto formalmente tale rivendicazione, è ormai un dato di fatto che i nostri pescherecci non possano, già da tempo, esercitare liberamente quello che è un loro diritto. Proprio per questo motivo si richiede un assiduo sostegno da parte della Marina Militare Italiana. Questa infatti, dispone di un servizio – Vigilanza Pesca (ViPe) – che ha il compito di assicurare il libero esercizio dell’attività di pesca dei pescherecci nazionali in acque internazionali, nel pieno rispetto delle leggi nazionali vigenti.
La sera del primo settembre scorso, però, la richiesta di aiuto avanzata dai marittimi è risultata inutile: durante le tre ore di fermo, infatti, dopo che è stata negata loro la possibilità di aiuto da parte di una nave della Marina Militare stessa (perché lontana 115 miglia ad ovest), l’elicottero richiesto in loro soccorso non è intervenuto. Esso avrebbe senza dubbio raggiunto i marinai nell’arco di due ore, e li avrebbe potuti salvare.
Non pochi sono i dubbi circa questa vicenda. Ciò che è sicuro, però, è che l’arresto dei marinai e la loro detenzione che, ormai va avanti da quasi quattro mesi, assume decisamente connotati di politica interna, sia dal fronte italiano, che da quello libico.
L’accordo fantasma
Quella del generale libico sarebbe stata per molti una vera e propria strategia, lungi dall’essere una mossa di giustizia. Per capire meglio bisogna proseguire analizzando innanzitutto la situazione attuale del Paese Nord-africano.
Dopo la caduta di Gheddafi la Libia si ritrova divisa in due: ad Est il governo di Tobruk, guidato dal già menzionato generale Haftar e ad Ovest il governo di Tripoli, presieduto da Fayez al Seraj, riconosciuto dall’ONU quale primo ministro. La situazione è traducibile in una vera e propria guerra civile alimentata dalla forte personalità del generale, il cui primo obiettivo è unificare e guidare sotto il suo controllo l’intero Paese. Ciò ovviamente spaventa l’intera comunità internazionale.
In questo quadro, l’Italia si presenta quale sostenitrice – in coerenza con quanto affermato dall’ONU – del governo Seraj. Le ragioni vanno ritrovate soprattutto in quello che è il fabbisogno energetico italiano, che viene soddisfatto dalla massiva presenza di pozzi ENI ad ovest della Libia.
La domanda sorge spontaneamente: la detenzione dei marinai costituisce la risposta politica del generale Haftar per la posizione ricoperta dall’Italia nel quadro della guerra civile? La risposta non è certa, ma è alimentata da alcuni fattori, la cui natura presenta gli stessi dubbi.
Innanzitutto si discute sulla possibilità che il sequestro sia stato nutrito dalla presenza di Luigi Di Maio in Libia il giorno stesso del sequestro dei marinai. In qualità di Ministro degli Esteri, Di Maio avrebbe fatto visita al Primo Ministro libico, ma non presentandosi per la prima volta dinnanzi al generale Haftar. Non sembra un caso che, poche ore dopo il mancato incontro, i militari del generale abbiano fermato i pescatori.
In secondo luogo, ciò che acquista particolare rilevanza sarebbe l’esistenza di un accordo tra Italia e Libia circa un vero e proprio “scambio tra prigionieri”: i 18 marinai per i 4 scafisti libici condannati in Italia a 30 anni per immigrazione clandestina nel 2016 (condanna che si basa sulla “Strage di Ferragosto” che registrò la morte di 49 migranti in mare). Sull’ipotesi di tale accordo Di Maio afferma: «Non accettiamo ricatti per i nostri connazionali». Tuttavia, è indubbio che per Haftar avere 10 dei nostri connazionali in Libia è una vera e propria opportunità di rivendicazione del suo potere, potendo strumentalizzare il tutto come una questione di politica interna.
Intorno a tale vicenda comunque tante sono le cose che non tornano e poche sono le certezze: i nostri marinai sono ancora in Libia e si avverte l’esigenza di farli tornare al più presto a casa. Che il motivo del loro fermo sia dato da una debolezza negoziale da parte del nostro governo, o da ragioni strategiche di Haftar, questo sequestro si differenzia da tutti gli altri finora avvenuti ma, al contempo, sembra avere le stesse caratteristiche e tecniche di negoziazione usate nei casi Regeni e Zaky.
L’augurio è che, in questo caso, l’esito sia diverso.
(Featured Image Credits: Libero)
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Enrica Cucunato
Nata nel 1999 a Cosenza, appassionata di cronaca giudiziaria, giornalismo d’inchiesta e politica estera. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Alma Mater Studiorum a Bologna. Durante la sua formazione universitaria ha avuto l’opportunità di seguire corsi presso la Gazzetta di Bologna. Nel 2015 ha viaggiato negli Stati Uniti, dove ha potuto approfondire, presso la New York University, quelle che sono due delle sue passioni più grandi: la danza e l’inglese. Appassionata di libri riguardanti lo studio delle criminalità organizzate e le più grandi inchieste giudiziarie, i suoi interessi riguardano anche la lettera e il cinema. View more articles.