Ci siamo. Dopo giorni di conteggi, contee, proteste, dichiarazioni incostituzionali e discussioni sugli absentee ballots, finalmente le elezioni presidenziali del 2020 hanno un vincitore: Joseph R. Biden Jr, ex senatore del Delaware ed ex Vicepresidente. Nonostante la grande incertezza che ha caratterizzato questi giorni, alla fine sembra che Biden vinca con un margine abbastanza ampio, superando quota 300 grandi elettori (per vincere ne basterebbero 270). Certo, poi ci saranno i ricorsi, eventuali riconteggi e, molto probabilmente, una transizione di potere non così fluida come si potrebbe sperare. Salvo cataclismi, e a meno che la campagna di Trump non mostri finalmente le prove della frode di cui parla, Biden è però a un passo dall’essere nominato quarantaseiesimo Presidente degli Stati Uniti.
Guardando ai numeri assoluti, si è trattata di una sfida in parte sorprendente: come previsto, Biden ha vinto abbondantemente il voto popolare, ma Trump ha ottenuto molti più voti rispetto al 2016. Ciò sorprende perché in molti ritenevano che fosse impossibile, per lui, espandere ulteriormente la propria base elettorale. Invece, ci è riuscito, mostrando di disporre di risorse politiche forse inaspettate. Non servirà a garantirgli un nuovo mandato alla Casa Bianca, ma sicuramente renderà più forte l’impronta del trumpismo nel sistema politico e sociale americano: dopo la pandemia del Covid (e tutte le critiche relative alla sua gestione) e i mesi di forti proteste, Trump ha comunque ottenuto più sostegno di quello del 2016.
Biden e i democratici speravano in una vittoria netta per archiviare definitivamente questa parentesi (che parentesi non è, a quanto pare, ma è molto più strutturale). Così non è stato, e il nuovo Presidente dovrà tenerne conto. Sia chiaro, Biden ha fatto un ottimo lavoro, ha mobilitato l’elettorato come mai prima d’ora, e ha ottenuto un numero record di voti. Inoltre, ha conquistato voti cruciali nei suburbs e nella Rust Belt; ha conquistato la Georgia grazie al lavoro pluriennale di Stacey Abrams; ha conquistato l’Arizona grazie (anche qui) al lavoro pluriennale di una generazione di Latinos (in primis il rappresentante Ruben Gallego) che ha eroso una delle roccaforti repubblicane. Tuttavia, se il suo obiettivo è unire un Paese fortemente diviso, il compito non sarà affatto facile, perché questa tornata elettorale ha mostrato un trumpismo forse più vivo di quattro anni fa. Per di più, le polemiche (alimentate da Trump e da alcuni collaboratori) relative ai presunti brogli (che non sono stati dimostrati) stanno ulteriormente inquinando il dibattito, riducendo la fiducia nel processo democratico e spaccando ulteriormente gli USA. Come se non bastasse, Biden rischia di dover fare i conti con un Senato a maggioranza (molto risicata) repubblicana e, come ben sa, Mitch McConnell non è certo un Majority Leader flessibile e tendente alla cooperazione bipartisan.

Fonte: The Washington Post
Come si è votato
Il voto anticipato e di persona, in gergo early voting, permette ai cittadini statunitensi di votare nelle settimane precedenti all’election day e fino a 4 giorni prima di questa data, che quest’anno è stata il 3 novembre. Il voto per corrispondenza, il cosiddetto absentee voting, permette ai cittadini di votare a distanza garantendo loro la riservatezza del voto. Questa modalità di voto non è generalmente garantita in ogni Stato alle stesse condizioni (vi sono Stati che automaticamente spediscono ai loro cittadini la propria scheda elettorale) ma l’emergenza sanitaria ha reso necessario ampliare le condizioni di accesso al voto a distanza in 33 Stati e nella capitale.
Uno dei principali problemi legati al voto postale riguarda gli errori di compilazione delle schede elettorali che possono rendere il voto invalido. Secondo lo US Elections Project, al 2 novembre più di 97 milioni (quasi 35 milioni e mezzo di persona e circa 62 milioni per posta) di americani avevano votato in anticipo, per posta o di persona. Una cifra che supera il totale dei voti anticipati espressi nelle elezioni del 2016.
Sul voto postale Trump si è espresso sin dall’inizio della campagna elettorale in termini negativi, anticipando la strategia che sta cavalcando in queste ore e minacciando di voler esercitare il diritto di chiedere il ri-conteggio dei voti in Michigan e Wisconsin, Stato dove Biden è in vantaggio solo del 0,7%. Nonostante ogni Stato utilizzi criteri differenti, nel caso del Wisconsin basterebbe un distacco di massimo un punto percentuale per chiedere un ri-conteggio. A tal proposito, la Corte Suprema ha già stabilito che le schede che arriveranno dopo il giorno delle elezioni non possono essere contate in Wisconsin, indipendentemente dal fatto che il timbro postale sia stato apposto prima della chiusura dei seggi.
L’intenzione, come confermato dai responsabili della campagna elettorale di Trump e dai suoi legali, è quella di portare il caso davanti alla Corte Suprema ma è prevedibile che l’ex presidente chiederà di ricontare i voti anche negli altri Stati in bilico, in primis la Georgia. È probabile che il partito repubblicano proverà ad adire la Corte anche per il risultato ottenuto in Pennsylvania, auspicando una possibile ribalta del risultato.

È evidente che le modalità di voto in queste elezioni presidenziali abbiano giocato un ruolo primario, non soltanto per quanto concerne le tempistiche dello scrutinio ma anche e soprattutto in relazione alla partecipazione elettorale, che ha assunto connotati decisamente differenti rispetto al 2016. Non solo la lotta alle disuguaglianze razziali ha spinto una parte dell’elettorato a votare ma anche e soprattutto la gestione della pandemia e lo stato di disagio socioeconomico in cui versano alcuni Stati americani hanno spinto molti a rivedere le proprie intenzioni di voto.
I risultati del voto
È bene ricordare che nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, il voto elettorale non riflette sempre il voto popolare e più volte è accaduto, come nel caso della candidata democratica alle scorse elezioni Hillary Clinton, che un candidato perdesse nonostante avesse ottenuto la maggioranza dei voti popolari. In queste elezioni, Joe Biden ha superato il record storico nel voto popolare – appartenuto all’ex presidente Barack Obama – arrivando al 50,5% delle preferenze, totalizzando 73,8 milioni di voti. Quanto ai gruppi di elettori, un’analisi del New York Times ha rilevato che l’87% degli elettori afroamericani ha votato per Biden mentre il restante 12%, un numero nettamente superiore alle percentuali registrate nel 2016, ha invece votato per Trump.

Gli Stati Uniti sono cambiati molto in quattro anni di presidenza Trump e dai sondaggi elettorali realizzati dalla CNN su circa 16.000 elettori, risulta che gli elettori dai 18 ai 39 anni preferiscono il candidato democratico, mentre Trump è stato maggiormente votato dagli elettori over 65.
Se si guarda poi all’origine etnica degli elettori, Trump è risultato, confermando i risultati delle precedenti elezioni, estremamente popolare tra gli uomini bianchi, seppur in numero inferiore rispetto al 2016. Cresce anche il numero delle donne bianche che quest’anno ha scelto di votare per lui.
Non sorprende nemmeno troppo e conferma il trend delle elezioni precedenti, la popolarità di Trump nelle comunità latine, soprattutto quelle stanziate in Florida e in Texas. Questo trend non è tuttavia stato confermato in Arizona, dove la comunità latina della contea di Maricopa ha sostenuto Biden, contribuendo in modo decisivo alla sua vittoria nello stato. Il motivo della polarizzazione risiede nel fatto che molti cubani e venezuelani hanno un ricordo estremamente negativo dei regimi socialisti dai quali sono fuggiti e credono che il Partito Democratico si stia avvicinando troppo a posizioni di estrema sinistra. Altri temono la povertà e riconoscono i benefici economici che la presidenza Trump ha portato loro.
È fondamentale dare uno sguardo anche agli orientamenti religiosi dei gruppi elettorali. Tra gli storici sostenitori di Trump, i cristiani evangelici, prevalentemente bianchi, costituiscono un importante parte del suo elettorato. Nonostante un calo rispetto al 2016 (dall’81% al 75%), questo gruppo ha confermato ancora una volta il suo supporto al presidente uscente. Tuttavia, è plausibile che proprio questo calo del 6% possa essere stato determinante per la vittoria di Biden in alcuni Stati chiave, come la Georgia. Se nel 2016 Trump raccoglieva il consenso di tutti i principali gruppi cristiani bianchi – evangelici, cattolici e protestanti – quest’anno parte dei loro voti sono andati a Biden, che ha inoltre conquistato il supporto dei protestanti di colore.
Tra le altre comunità presenti negli Stati Uniti, più di tre quarti della comunità ebrea (77%) ha preferito di gran lunga supportare il candidato democratico. I musulmani, seppur costituiscano una piccola percentuale degli elettori, hanno una popolazione piuttosto significativa in Michigan, stato andato a Biden con il 2,7% di preferenze in più rispetto a Trump.
Un dato importante rivelato dalla Associated Press riguarda le contee dove si sono manifestate le peggiori ondate di coronavirus, in cui, in contrasto con qualsiasi pronostico, Trump ha registrato le più alte percentuali di voti a suo favore. Si tratta delle contee rurali del Montana, del Dakota, del Nebraska, dell’Iowa, del Kansas e del Wisconsin nelle quali c’è un numero molto elevato di negazionisti, poco avvezzo al rispetto delle normali pratiche sanitarie ora imposte dalla pandemia.
Duello all’ultimo Stato
Per mettere a fuoco il contesto entro il quale si è sviluppata questa campagna elettorale, è agli Swing States che bisogna necessariamente guardare. Vengono definiti Swing States quegli Stati dove viene effettivamente decisa la vittoria di uno dei due candidati.
Per queste elezioni, come per le precedenti, gli Stati chiave che hanno determinato la vittoria presidenziale sono stati Michigan, Pennsylvania and Wisconsin, cosiddetti blue wall States insieme a Texas, Georgia, Arizona, North Carolina, Florida, Ohio e Nebraska.
La svolta è arrivata poche ore fa da Philadelphia, la contea della Pennsylvania dove Biden ha ottenuto l’80,8% delle preferenze. E poche ore prima, la certezza di aver conquistato anche la Georgia, hanno permesso al candidato e neo-Presidente Biden di sorpassare definitivamente l’avversario. Pochi giorni prima, parlando al popolo americano, Trump aveva dichiarato vittoria in anticipo sui tempi, dichiarando di voler chiedere alla Corte Suprema di stoppare il conteggio dei voti, il che non è piaciuto nemmeno ai suoi collaboratori.

Fonte: Nate Cohn (https://twitter.com/Nate_Cohn/status/1324486342873669638/photo/1)
La Pennsylvania, a lungo contesa, rischia di diventare teatro di ulteriore scontro tra i due candidati, se Trump non vorrà mollare la presa. Certo è che ormai ha ben poco cui potersi aggrappare davanti al risultato registrato nelle ultime ore dal suo avversario. Un risultato indiscutibile che, qualora fosse realmente contestato da Trump, non costituirebbe un problema per il candidato democratico, che riuscirebbe a superare i ricorsi, avendo in tasca la vittoria in quattro Stati decisivi. Con la vittoria di Biden in Nevada, Arizona, Pennsylvania e Georgia, gli stati più a lungo contesi, al tycoon non resta che sfogare la sua rabbia su Twitter.
La Camera
Come è noto, il 3 novembre i cittadini statunitensi non hanno solo votato il nuovo Presidente; infatti, si sono svolte anche le elezioni per rinnovare la Camera dei Rappresentanti (435 membri) e 35 membri del Senato (su 100). Nelle elezioni di metà mandato del 2018, i democratici erano riusciti a riconquistare la maggioranza alla Camera (con più di 30 seggi di vantaggio), mentre al Senato i repubblicani avevano continuato a mantenere una piccola – ma determinante – superiorità numerica.
Alla vigilia del voto, i sondaggi prevedevano una situazione sostanzialmente stazionaria alla Camera (al massimo, i democratici avrebbero leggermente aumentato il loro vantaggio), mentre la situazione al Senato era molto più incerta: i democratici, infatti, avevano un solo seggio a rischio (Doug Jones, Alabama), mentre i repubblicani si sarebbero dovuti difendere in molte sfide competitive: da Cory Gardner in Colorado a Susan Collins in Maine, passando per Thom Tillis in North Carolina, le fonti di preoccupazione per il GOP erano diverse. Alcune previsioni particolarmente ottimiste parlavano anche di una possibile sconfitta dell’influente senatore del South Carolina Lindsay Graham (un tempo alleato di John McCain, ora molto vicino a Trump); non a caso, infatti, i democratici avevano allocato molte risorse a favore del suo sfidante, Jaime Harrison.
I risultati, tuttavia, hanno parzialmente sfatato queste aspettative. Fino a questo momento, infatti, i democratici sono riusciti a conquistare due seggi in North Carolina e uno in Georgia; in tutti i casi, l’incumbent repubblicano aveva deciso di non ricandidarsi. Al contrario, invece, i repubblicani hanno fino ad ora conquistato 8 seggi, e hanno la possibilità di effettuare ulteriori guadagni. Bisogna evidenziare, però, che in moltissime sfide manca ancora una parte significativa dei voti via posta, che dovrebbero favorire i democratici. Non sono da escludere, dunque, delle rimonte che renderebbero il risultato più vicino alle previsioni della vigilia.
Un elemento che salta all’occhio, quando si analizzano gli otto seggi di cui sopra, è che in ben sei casi l’incumbent democratico è stato sconfitto da una donna: tra queste, particolarmente significative sono le vittorie di Maria E. Salazar in Florida (FL-27), di Yvette Harrell in New Mexico (NM-2) e di Michelle Fischbach in Minnesota (MN-7, distretto molto rurale). L’enfasi sulle affermazioni di queste congressiste è motivata dal fatto che, negli ultimi anni, il Partito Repubblicano ha sempre potuto contare su un numero molto ristretto di donne e minoranze tra i suoi ranghi. In questo ciclo elettorale, invece, la congressista newyorkese Elise Stefanik (NY-21) ha lanciato un Political Action Committee (PAC) per favorire proprio l’elezione di un numero maggiore di donne repubblicane.
Un altro elemento positivo per i repubblicani va ricercato in alcune zone del Texas. Come è noto, i democratici cercano da anni di conquistare questo stato, il che porrebbe sostanzialmente fine a ogni speranza repubblicana di vincere le elezioni nel prossimo futuro. Nel 2018, si pensava che Beto O’Rourke potesse sconfiggere il senatore Ted Cruz, ma così non è stato. Nel 2020, “Texas is in play” è divenuto nuovamente uno slogan molto usato nei circoli democratici, che infatti hanno puntato molto su alcune sfide chiave. Addirittura, grande sostegno è stato dato a MJ Hegar, sfidante del senatore uscente John Cornyn: dunque, non solo speravano di vincere in alcuni seggi alla Camera, ma anche a livello statale nel suo complesso. Cornyn, tuttavia, ha vinto agevolmente; per di più, i democratici non sono riusciti a ottenere la maggioranza neanche nell’Assemblea statale. A testimoniare questa (per certi versi sorprendenti) resistenza repubblicana, si prenda ad esempio il collegio Texas 23 (TX-23). Si tratta di un distretto al 78% urbano e al 68% ispanico. Dal 2014 a oggi, il rappresentante era stato il repubblicano Will Hurd, un grande oppositore di Trump, che ha vinto con margini sempre più ridotti (nonostante la sua linea politica fosse ben lontana dal trumpismo). La decisione di Hurd di non ricandidarsi sembrava essere la pietra tombale sulle speranze repubblicane di tenere il seggio. Eppure, il candidato repubblicano Tony Gonzales ha vinto anche abbastanza facilmente, contrariamente alle attese.

Fonte: The New York Times (https://www.nytimes.com/interactive/2020/11/03/us/elections/results-house.html)
I risultati sotto le attese hanno creato delle tensioni all’interno dei democratici. Come riportato dal Washington Post, diversi esponenti moderati hanno accusato i colleghi più progressisti di aver compromesso le possibilità di rielezione di alcuni democratici centristi in distretti competitivi. Dal loro punto di vista, i discorsi sul Defunding the Police e sul Medicare for All non hanno apportato alcun vantaggio al partito: i progressisti sono stati rieletti (tra di loro, si segnalano Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar e Rashida Tlaib) e alcuni sono stati eletti per la prima volta (Cori Bush in Missouri), ma sempre in distretti saldamente democratici. Spostando il partito a sinistra, dunque, l’accusa è di aver ridotto il vantaggio dei democratici alla Camera. In particolare, ci si riferisce a situazioni come quella di Max Rose (NY-11). Eletto in un distretto molto competitivo, Rose ha condotto una campagna elettorale nella quale ha cercato il più possibile di distanziarsi dai progressisti del suo partito, sostenendo la polizia e definendo Bill De Blasio come il peggior sindaco nella storia della città. Tuttavia, al momento è 16 punti indietro rispetto alla sfidante Nicole Malliotakis (anche lei di origine cubana, oltre che greca).
In generale, per di più, il New York Times aveva indicato 27 sfide congressuali come Toss-Up, ossia troppo competitive per fare una previsione. Al momento, i repubblicani ne stanno vincendo 26. I repubblicani non riusciranno a ottenere la maggioranza alla Camera, ma ridurranno di sicuro lo svantaggio accumulato nel 2018. I democratici, evidentemente, devono riflettere su questi dati.
Un elemento non positivo, ma che va sottolineato, riguarda l’elezione di alcune congressiste repubblicane sostenitrici della teoria del complotto QAnon. Lauren Boebert e Marjorie Taylor Greene, infatti, hanno vinto le loro sfide, rispettivamente, in Colorado e Georgia.
Il Senato
In Senato, alcune previsioni sono state rispettate. In Alabama, Doug Jones è stato sconfitto nettamente dal repubblicano Tommy Tuberville; in Colorado, il democratico John Hickenlooper ha sconfitto facilmente l’uscente Cory Gardner. In Arizona, fino a poco tempo fa fortezza repubblicana, Martha McSally è stata sconfitta dal democratico Mark Kelly. Il resto dei dati, invece, è stato più interessante.
Innanzitutto, alcuni risultati hanno ridimensionato sin da subito le aspettative dei democratici che, in virtù di alcuni sondaggi particolarmente favorevoli, speravano di assestare un duro colpo ai repubblicani. Per mesi, si è parlato della possibilità di sconfiggere addirittura il potentissimo senatore del Kentucky Mitch McConnell, attuale capogruppo di maggioranza. Si trattava, però, di una sfida impossibile e, nonostante i tanti fondi destinati a Amy McGrath, McConnell ha vinto agilmente. Allo stesso modo, la vittoria di Lindsay Graham è stata facile.
Molto più sorprendentemente, la senatrice dell’Iowa Joni Ernst è stata confermata dagli elettori; la sorpresa assoluta, però, viene dal Maine, dove la repubblicana Susan Collins (a lungo data per spacciata) ha sconfitto agilmente Sara Gideon. Il Maine è uno stato a maggioranza democratica (Biden ha vinto 3 collegi elettorali su 4, dato che il Maine è uno dei due stati a non usare la formula The Winner Takes It All), e anche per questo Susan Collins si è a volte distanziata dal resto del suo partito. Nei quattro anni di presidenza Trump, ha comunque votato a suo favore il 67% delle volte (percentuale più bassa dei suoi colleghi, ma comunque significativa). Per questo, la sua rielezione è senza dubbio una sorpresa.
Al momento, i repubblicani sembrano destinati ad avere 50 seggi, contro i 46 dei democratici (e degli indipendenti allineati ai Dem). Gli ultimi due seggi, invece, si decideranno a gennaio. In Georgia, infatti, entrambe le sfide si stanno risolvendo con nessun candidato in grado di superare la soglia richiesta del 50%. Ciò era praticamente certo nell’elezione speciale indetta in seguito alle dimissioni del senatore repubblicano Jonnhy Isakson. In quest’elezione c’era un candidato democratico – Raphael Warnock – e due repubblicani: Kelly Loeffler (che ha ricoperto il ruolo di senatrice ad interim in questi mesi) e il rappresentante Doug Collins, molto vicino a Trump. Warnock ha vinto il primo turno, ma la somma di voti ottenuta da Loeffler e Collins è molto più alta. Per questo, la sfida di gennaio tra Warnock e Loeffler sembra favorire la seconda ma, come è noto, i ballottaggi solitamente non possono essere analizzati semplicemente tramite la somma aritmetica dei voti del primo turno. Per di più, Loeffler avrà delle oppositrici di eccezione, le giocatrici WNBA. Loeffler, infatti, è co-proprietaria della franchigia Atlanta Dreams. La sua opposizione al movimento Black Lives Matter, però, l’ha messa in diretta contrapposizione con molte giocatrici, che storicamente sono attive nelle cause sociali.
L’altra sfida in Georgia, invece, era tra l’uscente David Perdue e il democratico Jon Ossof. Come accaduto anche a livello presidenziale, la sfida è molto serrata, ma in questo caso Perdue sembra andare meglio di Trump, dato che al momento è in vantaggio di un paio di punti. Per poco, però, pare non in grado di raggiungere il 50% (al momento è al 49.8%, con il 98% dei voti riportati).
Un’altra buona notizia per i democratici è arrivata dal Michigan. Nelle ultime settimane, era aumentata la preoccupazione riguardante la rielezione di Gary Peters, dato che lo sfidante John James era sempre più quotato. James, che sarebbe stato il secondo senatore repubblicano afroamericano, era sostenuto finanziariamente anche dalla potente famiglia DeVos, che esprime anche l’attuale Education Secretary, Betsy DeVos. Tuttavia, seguendo il trend dell’elezione presidenziale, il vantaggio di James si è pian piano ridotto, e alla fine Peters ha vinto. James, tuttavia, si è rifiutato di dichiarare la sconfitta, parlando di potenziali frodi elettorali.

Per i Democratici, vincere entrambe le sfide in Georgia sarebbe fondamentale, perché arriverebbero a 50 senatori. In caso di parità, infatti, è previsto che il Vicepresidente agisca da tie-breaker. Dunque, i Dem avrebbero una maggioranza de facto. Considerando che è proprio il Senato a dover approvare tutte le nomine effettuate dal Presidente (sia membri della sua amministrazione che giudici), una maggioranza repubblicana sarebbe un grande problema per Biden, considerando anche le pratiche ostruzionistiche messe in atto da McConnell durante gli anni della presidenza Obama.
(Featured Image Credits: The Hour.com)
About the Authors:
Valeria Torta
Classe 1998, Valeria Torta è studentessa del corso di laurea magistrale in Governo, Amministrazione e Politica presso la Luiss Guido Carli. Da aprile 2019 è membro di L’asSociata, associazione giovanile che ha come obiettivo quello di mettere a contatto tutte le realtà associative giovanili per discutere e identificare soluzioni utili per le problematiche di Roma. Nel ruolo di responsabile dell’area sostenibilità ambientale, ha coordinato il progetto Mens Sana, un’iniziativa volta a sensibilizzare gli studenti universitari al tema della sostenibilità alimentare. A luglio 2019 svolge un tirocinio presso Fondazione Ecosistemi, dove ha modo di approfondire quali sono le soluzioni e le strategie adottate nell’ambito del Green Public Procurement (GPP). A ottobre 2019 co-fonda NeoS, acronimo di NeoSustainability. A settembre ha preso parte al programma Erasmus presso la Maastricht University. View more articles.
Stefano Pasquali
Nato a Tivoli nel 1998, è appassionato di relazioni internazionali, politica economica e Stati Uniti. Dopo una laurea triennale in scienze politiche, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Global Management and Politics presso l’università LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto due tirocini presso l’Ambasciata del Regno Unito e quella degli Stati Uniti. È parte del team che cura la newsletter “Jefferson – Lettere sull’America”. Tifa Roma e vorrebbe saper scrivere come Aaron Sorkin. View more articles
quello spaccone di Trump non si rassegna neppure davanti all’evidenza dei risultati elettorali. Nei Tg ho visto scene di suoi sostenitori ammassati per strada e armati con fucili e pistole….ma dove vogliono arrivare!!!
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