Lo scorso 18 agosto un colpo di Stato militare ha scosso nuovamente gli equilibri politici, economici e sociali del Mali, riflettendo una situazione di profonda instabilità che può essere ormai denominata cronica. Questo ennesimo colpo di Stato, sintomo di un malcontento diffuso nei confronti della gestione governativa delle problematiche del Paese, deriva tuttavia da radici ben più profonde, quali la corruzione, la situazione economica (aggravata dall’impatto negativo che la pandemia di Covid-19 ha avuto sul Paese) ma soprattutto il jihadismo militante che di fatto regna incontrastato sul centro-nord del Paese.
Ma procediamo per gradi.
Nel corso della mattinata del 18 agosto, un ammutinamento in un campo militare a Kati, 15 chilometri a nord della capitale Bamako, ha dato inizio agli eventi concitati delle ore successive. Le ragioni alla base di questo ammutinamento possono essere facilmente ricercate non solo nei ritardi dei pagamenti governativi alle truppe maliane, ma anche nella destituzione del capo della guardia presidenziale, decretata improvvisamente dal presidente Ibrahim Boubacar Keita.
Le ragioni: il terrorismo
Tuttavia, parallelamente a quanto accaduto nel caso dell’analogo colpo di Stato militare del 2012, le motivazioni sottostanti sembrano essere più profonde e strettamente legate alle accuse da parte del corpo militare circa l’inadeguatezza del governo nell’affrontare e debellare la minaccia terroristica jihadista fortemente radicata nel centro-nord del Paese. In particolare, nel 2012, le tribù combattenti Touareg precedentemente stanziate in Libia e integrate nella legione straniera di Muammar Gheddafi, in seguito all’intervento internazionale e alla destituzione del dittatore libico furono costrette a tornare nei territori di origine, vale a dire nell’area geograficamente collocata nelle distese sahariane e saheliane tra Algeria, Libia, Mali e Niger. Nel caso specifico del Mali, al momento dell’indipendenza del Paese dal dominio coloniale francese nel 1960, il nord del nuovo Stato era caratterizzato da una forte presenza etnica a maggioranza Touareg. Dopo varie rimostranze da parte della comunità Touareg nei confronti dei vari governi susseguitisi dall’indipendenza al fine di ottenere delle autonomie, le relazioni tra Bamako e il nord del Paese si sono gradualmente deteriorate, fino a raggiungere nel 2012 un punto critico. Il ritorno dei miliziani Touareg dalla Libia, con conseguente disseminazione di armi sofisticate nella regione, permise infatti ai gruppi terroristici presenti in territorio maliano, con particolare riferimento ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO) e Ansar al-Din (AAD), di disporre di un nuovo notevole quantitativo di armamenti. L’escalation delle proteste nel nord del Paese e la mancanza di un’azione chiara e decisiva da parte del governo centrale portarono i militari a deporre l’allora Presidente Amadou Toumani Touré. Approfittando dal vuoto di potere provocato da questa destituzione, i ribelli, sostenuti dai citati gruppi terroristici, e guidati dal Movimento Nazionale per la Liberazione di Azawad (MNLA), proclamarono il nord del Paese, l’area dell’“Azawad”, Stato indipendente.
In seguito a questi avvenimenti, la Francia era intervenuta militarmente nel nord del Mali attraverso l’“Opération Serval”, con il fine di fermare l’espansione jihadista nel territorio maliano e riconquistare i territori occupati dai terroristi e dai ribelli. La missione, divenuta nel 2015 “Opération Barkhane”, è tuttora attiva, seppur con alcune modifiche, quali l’espansione del dispositivo su Mali e Ciad e l’azione collaborativa con l’organizzazione “G5 Sahel” (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger). Anche l’ONU, tramite la missione MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) è tuttora presente in territorio maliano, così come i Paesi dell’Unione Europea, che intervengono comunitariamente con la missione EUTM Mali, che si occupa dell’addestramento delle forze armate maliane, ma anche singolarmente nella task force Takuba (nell’ambito della quale anche l’Italia ha inviato 200 militari in Mali), avviata nel marzo 2020 e inserita nel contesto della francese Barkhane. Sicuramente, l’intervento internazionale si basa, soprattutto nel caso di Francia e Paesi europei, su interessi domestici legati alla stabilizzazione di un Paese centrale nell’economia dei movimenti migratori che dall’Africa occidentale interessano il Sahara e successivamente il Mediterraneo. La presenza jihadista contribuisce infatti a rendere l’area incontrollabile, aprendo a possibilità di traffico degli esseri umani attraverso il deserto del Sahara.

La situazione, sicuramente critica, era parsa risolversi parzialmente nel 2015, quando il nuovo Presidente Ibrahim Boubacar Keita, aprendo ai separatisti, era riuscito a raggiungere, complice la mediazione internazionale dell’Algeria in primis e di un composito team internazionale (UE, UA, ONU, ECOWAS, OCI), una soluzione di compromesso con l’ “accordo di Algeri”, che, tra le altre cose, prevedeva la creazione nell’area di assemblee regionali dotate di poteri delegati dal governo centrale e l’implementazione di programmi di sviluppo e sicurezza per la regione dell’Azawad. Tuttavia, nonostante l’apertura al dialogo di Keita abbia coinvolto a inizio 2020 anche i gruppi terroristici stanziati nella regione e unitisi nel 2017 nel gruppo qaedista “di sostegno all’Islam e ai musulmani” (JNIM) – i quali, dopo un’idilliaca alleanza con il MNLA, avevano cominciato ad erodere territori ai ribelli separatisti – questo auspicio non ha avuto seguito. La situazione nel nord del Mali a inizio 2020 era dunque ancora fortemente incontrollata, complice non solo il conflitto con il governo centrale da parte dei terroristi del JNIM ma anche e soprattutto la proliferazione di milizie jihadiste appartenenti all’ISIS nel territorio, con conseguente aumento di scontri interni nell’area, che è ormai possibile considerare terra di nessuno.
Le ragioni: l’economia
A questo quadro decisamente complicato e di non facile risoluzione, si è venuta ad aggiungere l’emergenza Covid-19. In un Paese in cui i posti letto attrezzati per la cura di malati Covid erano solamente 21, situati tutti nella capitale Bamako, le conseguenze della pandemia si sono andate a sommare ad un contesto socioeconomico già compromesso (il Mali, secondo l’Indice di Sviluppo Umano, si posiziona al 184° posto su 189 Paesi studiati), in cui siccità e susseguenti crisi alimentari, disoccupazione e povertà (più del 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà) sono all’ordine del giorno .
Le ragioni: la politica
Oltre ad un contesto securitario, sociale ed economico precario, l’assetto politico del Paese, che con l’elezione nel 2013 di Ibrahim Boubacar Keita sembrava aver trovato una soluzione all’instabilità in cui il Mali versava dopo il golpe dell’anno precedente, è stato scosso nell’aftermath delle elezioni parlamentari del marzo 2020 da scandali e accuse di corruzione. Infatti, oltre a problematiche legate alla sicurezza dei votanti e alla validità dei voti (soprattutto nei seggi del centro-nord del Paese, dove si sono registrati saccheggi e aggressioni perpetrati dai militanti jihadisti), al rapimento del leader dell’opposizione Cissé a tre giorni dal voto, e alla bassa affluenza dovuta all’emergenza Coronavirus, i risultati comunicati dopo le due tornate elettorali del 29 marzo e del 19 aprile, che segnalavano la mancanza di maggioranza da parte del partito del Presidente Keita, sono stati modificati dopo poche settimane da una sentenza della Corte costituzionale maliana. Accogliendo infatti il ricorso del partito del Presidente, il “Rassemblement pour le Mali” (Rpm), la Corte ha assegnato otto seggi in più proprio al Rpm, causando caos e disordini nel Paese. Il 5 giugno, migliaia di persone sono scese in piazza chiedendo a gran voce l’annullamento della sentenza e le dimissioni di Keita, esprimendo tutto il malcontento contro un governo ritenuto inadeguato a guidare il Paese. Le successive manifestazioni, con particolare riferimento a quella del 10 luglio, sono state caratterizzate dalla violenza della repressione governativa e dai numerosi arresti nei confronti dei leader della protesta, portavoce di un nuovo movimento popolare, il M5-RFP (“Mouvement du 5 juin – Rassemblement des Forces Patriotiques”). La feroce repressione ha portato alla morte di 11 e al ferimento di oltre 170 manifestanti. La dichiarazione da parte di Ibrahim Boubacar Keita di sciogliere la Corte Costituzionale, tra l’altro, non ha fatto altro che aizzare la piazza, dato che i giudici sono nominati per 1/3 dal Presidente stesso, per 1/3 dal Consiglio Superiore della Magistratura, e per 1/3 dal Presidente dell’Assemblea Nazionale, che, nello specifico, era stato uno di quelli eletti nel proprio collegio solo dopo la pronuncia della Corte.
Tutto questo ha portato al colpo di stato dell’agosto 2020, che ha visto un avvicinamento delle posizioni tra i militari e la piazza. La situazione si è sviluppata con l’arresto del Presidente Keita, la sua successiva liberazione in seguito alle pressioni internazionali e al suo esilio volontario ad Abu Dhabi, dove è tuttora.
Le conseguenze
Le conseguenze sono state ingenti, soprattutto sul piano internazionale. Oltre all’unanime condanna del colpo di Stato da parte della comunità internazionale, tra cui l’ONU, l’UE e l’UA, le ripercussioni maggiori si sono registrate in area economica. Infatti, l’ECOWAS (Economic Community of West African States) ha deciso di sospendere la partecipazione del Mali all’organizzazione, con conseguente chiusura delle frontiere da parte degli altri Stati membri, sia dal punto di vista territoriale che finanziario, interrompendo dunque la libera circolazione di persone, merci e capitali. Data l’integrazione economica e commerciale dell’ECOWAS, le sanzioni applicate al Mali, fortemente dipendente, soprattutto dal punto di vista alimentare, da approvvigionamenti esterni, rischiano di portare l’economia, già disastrata, al collasso. La principale condizione per il sollevamento delle sanzioni è la nomina di un primo ministro civile che si occupi di guidare il Paese nella transizione democratica e di indire nuove elezioni.
La transizione
I militari, che, come successo nel 2012, si erano impegnati a garantire un ritorno alla normalità e alla creazione di un “nuovo Mali” democratico e libero dal fenomeno della corruzione e dell’instabilità, hanno nominato lo scorso 25 settembre Bah N’Daw, capo della giunta militare ed ex ministro della difesa, Presidente della transizione, con l’incarico di portare il Paese, entro 18 mesi, a nuove elezioni. “Il Mali mi ha dato tutto. Sono lieto di essere il suo schiavo sottomesso, e sono disposto a fare di tutto per tornare alla piena legittimità costituzionale, con autorità elette e rappresentanti legittimi”, ha dichiarato Bah N’Daw. Solo due giorni dopo, il 27 settembre, il ministro degli affari esteri in carica dal 2004 al 2011 Moctar Ouane è stato nominato Primo Ministro della transizione.
Attualmente, la situazione è in una fase di stallo. Si attende la formazione del governo e la riorganizzazione dell’apparato istituzionale, sicuramente fortemente colpito dai numerosi cambiamenti degli ultimi mesi. Innanzitutto, l’operato del nuovo governo dovrà soddisfare le richieste della società civile, guidata da un combattivo M5-RFP, tentare di risanare, almeno parzialmente, la situazione economica una volta che le sanzioni dell’ECOWAS saranno sollevate, e preparare in modo adeguato il Paese alle elezioni. I fantasmi del passato, che dimostrano come la fin troppo rapida risoluzione della crisi nel 2012 abbia lasciato immutato il quadro maliano, sicuramente dovranno essere presi in considerazione. Resta irrisolta la questione centro-settentrionale, dove i terroristi di al-Qaeda ed ISIS potrebbero nuovamente approfittare dell’instabilità politica per espandere il loro controllo, provando, come successo in passato, a spingersi più a sud e raggiungere il porto fluviale di Mopti. Inoltre, interessante sarà il posizionamento della comunità internazionale, data l’insofferenza, dimostrata dai manifestanti, nei confronti della troppa ingerenza straniera negli affari interni del Paese.
Il quadro è sicuramente in rapida evoluzione.
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Angela Venditti
Nata a Foggia nel 1999, nutre un profondo interesse per le relazioni internazionali, la cooperazione allo sviluppo e la geopolitica. Ha conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche nell’estate 2020, ed è attualmente studentessa del corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carli. Complice la partecipazione al progetto Erasmus all’Institut d’Études Politiques SciencesPo Paris, ha potuto approfondire tematiche legate al continente africano, diventato fonte di interessanti spunti e ricerche. È amante della letteratura francese e delle lingue, ed è grande appassionata di F1. View more articles.