La celebrazione del Ramadan è storicamente un momento di tensione in Israele, ma quest’anno è stato segnato da un particolare dramma. Nel corso dell’ultima settimana, il mondo ha assistito al divampare delle tensioni in Israele, mentre famiglie palestinesi venivano sfrattate dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Questa espulsione forzata dalle loro case è culminata in un attacco alla moschea al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per i fedeli musulmani. All’inizio della scorsa settimana, Hamas, il partito politico palestinese – considerato organizzazione terroristica da molti Stati occidentali, USA in primis – che de facto controlla la maggior parte della Striscia di Gaza, ha reagito lanciando oltre 1.500 razzi contro Israele come rappresaglia. Anche se la loro risposta dovrebbe essere condannata, questo conflitto non è di certo iniziato con il lancio di razzi di qualche giorno fa; piuttosto, è il risultato di un più complesso e profondo conflitto.
Anche se la regione non è nuova a queste tensioni, la dura risposta israeliana di questa settimana ha eclissato qualsiasi cosa vista negli ultimi anni, con l’eccezione dell’operazione “Margine protettivo”, portata avanti da Israele nel 2014 proprio contro Hamas e gli altri gruppi paramilitari attivi nella Striscia (come il Jihad Islamico). Le violenze degli ultimi giorni hanno mostrato al mondo un’asimmetria di potere tra lo Stato più militarizzato e più forte del Medio Oriente e una popolazione apolide caratterizzata da alti livelli di povertà e vittima di apartheid. L’espulsione dei palestinesi dai loro territori da parte del Governo israeliano è iniziata con l’occupazione della Cisgiordania nel 1967: un’espropriazione basata su una visione a lungo termine di espansione coloniale. Lo si vede chiaramente nello sviluppo incessante di insediamenti illegali e nella demolizione delle case palestinesi. Sia la ONG Human Rights Watch che l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din hanno condannato le azioni del Governo, affermando che le autorità israeliane si sono macchiate di crimini contro l’umanità contro le comunità palestinesi della Cisgiordania, facendo riferimento, in particolare, al crimine di apartheid.
L’approvazione della legge sullo Stato-nazione del 2018, che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”, e che è stata considerata dagli esperti un simbolo inequivocabile dell’apartheid portata avanti da Israele ai danni dei palestinesi, ha comportato l’esclusione degli arabi israeliani e dei palestinesi da pari protezione, diritti e privilegi in Israele. Con questa legge l’arabo ha perso il suo posto come lingua ufficiale e ha invece ottenuto uno “statuto speciale”; la creazione di insediamenti ebraici è riconosciuta come valore nazionale; ed “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale è unico per il popolo ebraico”.
In termini inequivocabili, questa legge relega gli arabi israeliani a uno status di cittadini di seconda classe. In più, i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est non possono votare alle elezioni nazionali, ed i palestinesi che vivono in Cisgiordania e Gaza sono essenzialmente governati da un organismo presso il quale non hanno alcun diritto elettorale.
È in questo contesto che possiamo iniziare a considerare la situazione attuale come una lotta tra i potenti e gli impotenti. Anche se in nessun modo Hamas dovrebbe essere visto come un organismo benevolo, è ugualmente irresponsabile accettare le barbarie del Governo di Netanyahu. Dopo una settimana di violenze, il Presidente USA Joe Biden ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma la sua risposta è stata debole. Dato che gli Stati Uniti forniscono a Israele quasi 4 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari, Biden ha la capacità (e l’obbligo ndr.) di parlare contro le azioni del Governo Netanyahu, eppure, finora, ha mostrato riluttanza a farlo.
La sua posizione è tutt’altro che uniforme, così come non lo è nel suo stesso partito. Infatti, il violento riemergere della questione israelo-palestinese ha messo in luce le divisioni tra Biden e membri progressisti del Congresso come AOC, Rashida Tlaib e Cori Bush, che hanno preso una posizione netta in difesa il popolo palestinese twittando: “gli Stati di apartheid non sono democrazie”. Per Tlaib, l’unico membro palestinese del Congresso, questa è una questione personale e, in un discorso in Aula, ha sottolineato il ruolo degli Stati Uniti nel conflitto in corso: “finché il messaggio da Washington è che il nostro sostegno militare a Israele è incondizionato, il governo estremista di destra di Netanyahu continuerà ad espandere gli insediamenti, continuerà a demolire case e continuerà a rendere impossibili le prospettive di pace”.
Tuttavia, la questione va oltre gli aiuti statunitensi a Israele, e riguarda anche il modo in cui i principali organi di informazione elaborano intenzionalmente il loro linguaggio per scagionare una parte e incolpare l’altra. Nella migliore delle ipotesi il messaggio trasmesso è parziale, nel peggiore dei casi fornisce una giustificazione per l’annessione israeliana. La ripetuta e stantia fusione tra antisemitismo e antisionismo ha, per molto tempo, offuscato qualsiasi dialogo genuino sull’argomento. Ma, grazie allo sviluppo dei social media, c’è una reportistica più diffusa – ed equilibrata. Piattaforme come Twitter sono state fondamentali nell’aiutare il mondo occidentale a guardare a questa lotta attraverso una nuova lente. In effetti, in tutto il mondo sono scoppiate proteste a sostegno del popolo palestinese.
La visione del conflitto è cambiata, e con quella, anche l’opinione pubblica.
Nessuno, in buona fede, sosterrà che Israele non ha il diritto di difendersi da minacce legittime. Ma inquadrare l’attuale conflitto come un attacco a Israele è falso e pericoloso. Sostenere questa narrativa non fa altro che legittimare il governo estremista di Netanyahu e le sue politiche espansionistiche illegali. Non condannare il suo Governo oppressivo equivale ad un abbandono della salvaguardia dei vulnerabili e della protezione degli esseri umani – sia ebrei che palestinesi – poiché il vero costo di questo conflitto è conteggiato nell’insensata perdita di vite umane, per lo più di civili.
Non ci può essere speranza per la pace, l’uguaglianza o un futuro in uno Stato in cui ci sono una serie di privilegi per alcuni, ma non per altri. Forse questo può essere un momento determinante per Biden nel dare forma a una nuova politica estera progressista. Dopotutto, se Biden vuole mantenere la promessa della sua campagna di salvaguardia dei diritti umani, allora la sua voce è fondamentale per ridurre le tensioni, difendendo gli emarginati e gli oppressi e condannando il governo Netanyahu.
(Featured Image Credits: Middel East Eye)
About the Author
Matthew Santucci

Nato in Connecticut nel 1995, ha vissuto gran parte della sua vita tra Stati Uniti ed Italia. Passato il primo anno triennale a Firenze, si è laureato in storia alla Fordham University, New York City. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionale presso l’università LUISS Guido Carli. Ha svolto due prestigiosi tirocini presso l’ufficio del Procuratore Generale del Connecticut e presso la Corte d’Appello del secondo circuito della città di New York per approfondire le dinamiche del sistema legale americano. E’ un appassionato di politica estera statunitense e delle sue dinamiche elettorali, di economia e del processo legislativo europeo.
Tra le sue passioni spiccano canottaggio agonistico, vogando sia per la squadra universitaria della Fordham sia per l’attuale squadra della LUISS, fotografia ed architettura.
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