Il caso di Fukushima
La prima parte di questo 2021 ha riacceso in maniera importante il dibattito sull’energia nucleare, soprattutto considerati i fatti di cronaca succedutisi negli ultimi mesi. Il primo riferimento è alla decisione del Governo giapponese, presa nel corso del mese di aprile, di diluire le acque radioattive provenienti dalla centrale di Fukushima nell’Oceano Pacifico. Le torri della centrale, danneggiata e mai recuperata dopo lo tsunami del 2011, hanno ininterrottamente continuato a produrre calore per dieci anni e devono essere quotidianamente raffreddate. Il risultato è un quantitativo di acqua radioattiva prodotta pari a 140 tonnellate al giorno, che ha generato un accumulo di liquido superiore al milione di tonnellate. Il liquido, contaminato principalmente dal trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, è momentaneamente stoccato in serbatoi adiacenti la centrale, i quali, entro l’estate del 2022, raggiungeranno la massima capacità di contenimento. Da qui la decisione del premier Yoshihide Suga, in concerto con il Ministro dell’Industria Hiroshi Kajiyama, di procedere allo sversamento delle acque contaminate nell’Oceano Pacifico.
Le operazioni cominceranno tra due anni e dureranno decenni. Tuttavia, nonostante lo sversamento graduale e la bonifica preventiva dell’acqua in appositi bacini, restano forti dubbi. L’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ha sostenuto che il rilascio nell’oceano delle acque contaminate è in linea con gli standard internazionali dell’industria nucleare. La decisione ha però sollevato enormi proteste, dovute ai danni che lo sversamento rischia di provocare alla flora e alla fauna marina, specialmente presso l’opinione pubblica giapponese e presso i vicini coreani e cinesi.
L’allarme cinese e il caso di Bushehr
Meno roboanti ma certamente rilevanti sono gli altri due casi che si sono recentemente verificati. Il primo fa riferimento alla fuga radioattiva che si sarebbe verificata presso la centrale nucleare di Taishan, nella provincia di Guangdong in Cina. La centrale, di proprietà del colosso francese dell’energia Électricité de France, avrebbe rappresentato una “minaccia radioattiva imminente”, come riferito dalla stessa società. Per almeno due settimane, però, la Cina ha sottovalutato il problema, sostenendo che non ci fossero anomalie ambientali o fattori di rischio all’interno e all’esterno dell’impianto. Al momento sembra che l’aumento di radioattività nei pressi della centrale fosse dovuto a cinque barre di combustibile danneggiato, fenomeno comune che non desterebbe particolari preoccupazioni.
Il secondo caso riguarda l’unica centrale nucleare iraniana in funzione, quella di Bushehr nel sud del Paese. A causa di un guasto tecnico non definito e specificato, la centrale ha infatti subìto un arresto di emergenza temporaneo ed è stata scollegata dalla rete elettrica nazionale. L’Organizzazione per l’energia atomica in Iran e un funzionario della compagnia elettrica statale si sono limitati ad affermare che lo stop sarebbe durato qualche giorno, senza fornire ulteriori dettagli.
L’analisi costi/benefici
Allargando l’analisi a livello globale si nota che, dopo un periodo di denuclearizzazione seguito al disastro di Chernobyl, l’energia nucleare ha vissuto un nuovo rinascimento a partire dal 2000. Ci si potrebbe chiedere a questo punto se convenga davvero continuare a investire sul nucleare e soppesare rischi e benefici di questa fonte energetica alla luce dei recenti avvenimenti.
L’energia nucleare da fissione è considerata economica, relativamente sicura e ha un bassissimo impatto ambientale. Le emissioni di sostanze climalteranti, infatti, sono pari a quelle dell’eolico e addirittura inferiori al fotovoltaico. Questo aspetto, per quanto cruciale nella lotta ai cambiamenti climatici, va bilanciato con una serie piuttosto lunga di “contro”. Il nucleare, infatti, richiede investimenti iniziali faraonici – anche quattro volte superiori a quelli necessari per le fonti rinnovabili – e tempi molto dilatati per la messa in esercizio delle centrali, fino a dieci volte superiori a un parco eolico o fotovoltaico. Allo stesso modo, risulta estremamente macchinoso nonché costoso il processo di smantellamento delle centrali. A ciò si aggiunge l’annoso problema dello smaltimento e lo stoccaggio delle scorie radioattive che deve fare i conti con un numero finito di siti idonei, permanenti o temporanei che siano, con l’esempio delle acque di Fukushima che rappresenta la più lampante delle dimostrazioni. Infine, c’è da fare i conti con gli eventuali disastri ambientali; se è vero che sono numericamente molto limitati, è altrettanto vero che i danni provocati sono incalcolabili, si ripercuotono per decenni e insistono su porzioni di territorio geograficamente rilevanti.
Stante quanto detto, si potrebbe logicamente concludere che i rischi legati al nucleare sono ben maggiori dei benefici, anche alla luce del contributo effettivo che le centrali garantiscono ai singoli Stati in ambito di produzione energetica totale. Dando spazio ai numeri, nei tre Stati succitati il nucleare contribuisce alla produzione di energia elettrica nazionale in misura inferiore al 5%, e, a livello globale, solo il 10% della produzione energetica deriva da questa fonte, sebbene esistano ancora rilevanti eccezioni, come la Francia, in cui il livello di dipendenza dal nucleare supera il 70%.
(Featured Image Credits: http://www.schierschke.de)
About the Author
Alessandro Cinque

Nato a Roma nel 1996, sono un grande appassionato di materie storico-politiche oltre che amante dello sport. Per questa ragione ho deciso di iscrivermi al Master in Sport Management presso la 24Ore Business School. Ho trascorso i cinque anni della mia carriera universitaria presso la Luiss “Guido Carli” dove ho conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali e la laurea magistrale in Governo e Politiche – Istituzioni e Politiche. Nel 2020 ho iniziato a lavorare come “Customer Service Assistant” tirocinante presso una società di servizi informatici di Roma la quale ha successivamente deciso di inserirmi a tempo pieno nell’organico aziendale.
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